Lontano dagli occhi, lontano dal cuore

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Riceviamo e volentieri pubblichiamo una riflessione di Rahel Sereke – Rachela per noi – che, a partire da sè e dalla propria storia, prova a indagare la qualità della nostra nostra democrazia in tema di immigrazione, a partire dagli ultimi fatti di cronaca romana.

Sono romana, anche se Milano mi ospita da 14 anni, anche se sono nera e non mi chiamo Claudia, e mi sento profondamente scossa da quanto sta venendo a galla dall’inchiesta “mafia capitale”, principalmente per due ragioni: una coppia di immigrati mi ha generato e, dopo un’infanzia in istituti cattolici, una coppia di comunisti mi ha cresciuto.

Mi sento come l’esito del processo storico che ha generato il Pd, pur avendo “solo” 37 anni, a partire dalla genesi del Pc degli anni 50, prodotto della determinazione di esuli del fascismo che avevano trascorso gran parte delle loro vite all’estero, animati da un profondo desiderio di riscatto, per sé e per il Paese da cui provenivano; passando dalla fusione fredda con il mondo cattolico, ancora così intriso di determinismo sociale e paternalismo; fino ad arrivare a oggi, alla difficoltà di cogliere i grandi cambiamenti in atto nel mondo e capire come esserne protagonisti con il contributo attivo della pluralità di soggetti che nel frattempo ha occupato la scena sociale del Belpaese, diversamente da come e quanto fatto dalle grandi organizzazioni d’interesse.

Reinterpretare parte della mia vita attraverso una personale lettura di questo processo storico, mi aiuta a capire cosa rende così drammatiche le inchieste sul “mondo di mezzo”. Sì, perché, oltre a ciò che emerge, al cospicuo danno erariale, ai livelli di collusione della politica con i mondi criminali, all’assenza di uno sguardo strategico sull’immigrazione, quello che ancora una volta risulta essere completamente ignorato è il punto di vista degli immigranti, migranti, profughi, rifugiati. in qualsiasi modo si decida di nominare gli altri, nessuno sembra preoccuparsi di chiamarli in causa.

Tant’è che le quote sembrano essere diventate la panacea di ogni questione problematica legata ai quotidiani sbarchi sulle coste del Mediterraneo, aldilà del fatto che l’integrazione di una persona senza alcun riferimento socio-relazionale in un Paese ospite “x” rappresenti un costo economico e umano poco sostenibile da chiunque.

Le leggi che in Italia hanno provato a governare l’immigrazione hanno da sempre riproposto un modello culturale in cui l’altro da sé rappresentava il nemico, fino a rendere un crimine simile al furto, o allo stupro, un’irregolarità amministrativa. anche quando l’internazionalismo animava le battaglie politiche della sinistra, sul territorio nazionale lo straniero doveva essere internato e i suoi figli non potevano e, non possono ancora oggi, pur essendo nati e cresciuti in Italia, godere dello status di cittadino e dei diritti che ne derivano, salvo avvalersi della possibilità di richiedere la cittadinanza tra i 18 e i 19 anni e non un giorno più tardi.

Come stupirsi del successo di Salvini se ancora oggi qualcuno si sorprende che una trentenne nera parli bene l’italiano?

Le statistiche raccontano che il 10 per cento della popolazione italiana è composta da immigrati. Pagano le tasse, rivitalizzano le economie locali e non hanno diritto di scegliere chi possa rappresentare meglio le loro istanze e garantire la loro partecipazione alla costruzione di una società plurale. Non vengo da una formazione liberale, ma credo di avere gli strumenti per dire che questa è una palese violazione dei principi alla base degli stati moderni.

Per non parlare poi della sicurezza sociale che è ancora demandata alla polizia, quando basterebbe che quelle che vengono considerate elementari regole di convivenza fossero accessibili, cioè, in poche parole, tradotte, senza supporre che l’appartenenza non sia una scelta intimamente legata al grado di felicità che una società può offrire. E qual’è il prodotto della fascinazione che in Europa ancora generano gli Stati Uniti – “I care”, “yes, I can” – se non il diritto di tutti alla felicità.

Dubito che l’universalismo possa essere ancora oggi la precondizione per la costruzione di società che aspirino alla convivenza e alla pace, certo non con questo modello economico, né con il modello culturale che in primis le norme in materia d’immigrazione propongono.

Sulla pelle dei senza diritti, principalmente immigrati, viene sperimentato da decenni quello stesso modello d’insicurezza sociale che oggi viene riproposto alle giovani generazioni autoctone e non, ponendo alle basi del contratto sociale tra istituzioni e cittadini il ricatto: se non lavori niente permesso, se non fai il volontario, o non “scegli” di essere precario per due, tre anni, zero opportunità future.

Ho in mente persino l’intercettazione tipo, ed evito di trascriverla in romanesco, perché, ahimè, credo che la questione sia ben più diffusa.

Il Comune dice “troppi negri per strada”, dai, com’è che si chiama la tua cooperativa.. apriamo un albergo e lo gestisci tu, in periferia?!.. meglio, tanto poi chi se ne frega se non impareranno una parola d’italiano sperduti come sono. Com’è che si dice?.. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore (risatina) tanto anche loro serviranno a qualcosa.

E l’unica possibilità reale d’integrazione gliela offrirà la criminalità per cui la loro condizione di dipendenza li renderà schiavi modello, sfruttabili per qualsiasi mansione, dal bracciante agricolo, allo spacciatore, alla puttana, al trafficante.

Penso che bisognerebbe avere l’intelligenza e il coraggio di non considerare le persone solo numeri, negandone la storia, il percorso e le ambizioni. Bisognerebbe avere le qualità per riconoscere la partecipazione di tutti alla vita pubblica come una componente essenziale di uno stato che si definisce democratico, perché il rischio, ormai più che tangibile, è che la politica stessa, oltre che le istituzioni, diventino vittima di quello stesso modello ricattatorio che pongono in essere con le vigenti regole e normative.

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