Brevi note sul disegno di legge Iori. Una questione di qualità

10423292_241321842744574_1586277253958990339_nIl 21 Giugno 2016 la Camera dei Deputati ha approvato il Disegno di Legge presentato dall’on. Iori e altri deputati per la “disciplina delle professioni di educatore professionale socio-pedagogico, educatore professionale socio-sanitario e pedagogista” rimandandolo al Senato per l’approvazione definitiva. La legge si propone di regolare in modo chiaro l’esercizio di professioni di carattere educativo finora regolamentate in modo parziale e incompleto, a tutela degli educatori stessi e dei cittadini a cui essi rivolgono il proprio lavoro e dunque dell’intera collettività.

Se sul principio di carattere generale – qualificare il lavoro sociale – tutti gli osservatori e gli attori coinvolti paiono d’accordo, diverse critiche sono state sollevate da gruppi organizzati di operatori sociali, oggetto della legge stessa, attraverso la Rete Nazionale degli Operatori Sociali (ReNos).

Le obiezioni sollevate dalla Rete riguardano principalmente: a) la mancata integrazione delle diverse competenze educative in un unico profilo; b) la scarsa considerazione dell’esperienza sul campo e della formazione maturate dagli operatori attualmente privi di titolo (con il relativo rischio della perdita di centinaia di posti di lavoro); c) il rischio che siano esclusivamente gli operatori a dover pagare il costo (economico e di tempo) del loro adeguamento formale alla nuova normativa. La Rete pone inoltre importanti questioni relative alla visione del welfare che questa legge lascia intravedere e alle prospettive di sviluppo del sistema italiano di assistenza e protezione sociale. A partire da queste critiche e questi interrogativi, la Rete degli Operatori chiede sostanziali modifiche della Legge.

In questo breve intervento vogliamo portare l’attenzione su un aspetto trascurato dal dibattito, eppure centrale per la possibilità di realizzare un lavoro sociale basato sulla professionalità e dunque sul rispetto dei cittadini (siano essi “utenti” o lavoratori del settore). Si tratta della difficoltà, già in atto e non menzionata nel disegno di legge Iori, a praticare un lavoro sociale di qualità derivante dal costante disinvestimento economico e culturale nel welfare, in particolare a partire dallo scoppio della crisi del 2008.

Da prospettive diverse, recenti ricerche sul welfare italiano hanno portato l’attenzione su questo aspetto e hanno sottolineato il crescente scarto tra la qualificazione (formale e informale) dei lavoratori e le condizioni dei servizi, pubblici e privati, in cui si trovano a lavorare.
I tagli e le riorganizzazioni dei servizi hanno modificato profondamente le condizioni di lavoro degli operatori. A partire da una drammatica sproporzione tra i bisogni sociali espressi dai cittadini e risorse impiegate per affrontarli e risolverli, si trasformano sia le pratiche degli operatori nella relazione con i cittadini sia le pratiche delle cooperative e imprese sociali nella relazione con gli operatori.

In primo luogo si afferma la concentrazione delle risorse e del lavoro sulle emergenze conclamate (vere o presunte) ridimensionando drasticamente la dimensione preventiva del lavoro sociale. In secondo luogo vengono ugualmente ridotte o eliminate le ore dedicate alle forme di supporto per gli operatori quali la supervisione, le equipe e la formazione. Queste funzioni, decisive per la qualificazione del lavoro e per la capacità degli operatori di non essere travolti dalle emergenze che fronteggiano, vengono considerate le prime a poter essere tagliate in tempi di ristrettezze economiche. Il dato più chiaro in questo senso viene dal preoccupante ritorno degli affidamenti diretti e delle gare al massimo ribasso che spingono in maniera drastica verso la riduzione di tutte le ore di lavoro non a diretto contatto con l’utenza (ad esempio il Comune di Milano non riconosce alle cooperative le cosiddette “ore indirette” di servizio). Dopo una precisa disamina di queste e di altre dinamiche in atto, un gruppo di autorevoli studiosi e osservatori del welfare italiano conclude così la propria analisi del lavoro sociale:

La riduzione delle risorse dedicate agli interventi e la discontinuità dei flussi di finanziamento incide negativamente sulle effettive possibilità di realizzare interventi e servizi adeguati. Tutto ciò mette fortemente in discussione il senso stesso del lavoro sociale e riconduce l’intero settore ad essere basato più sulla spinta motivazionale e sulla buona volontà dl singolo, che non sul riconoscimento e valorizzazione della professionalità come elemento centrale per un welfare di qualità [C. Gori, V. Ghetti, G. Rusmini, R. Tidoli, Il welfare sociale in Italia. Realtà e prospettive, Carocci ed., 2014, p. 203]. Secondo questi autori, le condizioni e la dignità del lavoro sociale sono “a rischio di arretramento”, nel contesto di un sistema di welfare segnato da quattro tendenze: schiacciamento del ruolo del Terzo Settore sulla pura erogazione di servizi; rischio di fuga degli enti di Terzo Settore erogatori di servizi sociali verso campi di investimento sociale più ricchi, primo tra tutti quello abitativo e della sanità; forte ritorno del mercato sommerso dei lavori di cura; progressivo ritorno della logica e della pratica della beneficenza a scapito di culture e pratiche dei diritti e della professionalità sociali.

Tralasciando in questa sede le gravi conseguenze di questa dinamica sulla condizione e i diritti effettivi dei cittadini, e in particolare dei cittadini più poveri e in difficoltà che rischiano di rimanere gli unici utenti di un welfare locale pubblico sempre più degradato, vogliamo portare l’attenzione su cosa questo significhi per gli operatori stessi.

Un recente lavoro basato sul metodo della socioanalisi narrativa ovvero della co-costruzione della ricerca tra ricercatori e “oggetti della ricerca” ha indagato le condizioni di lavoro nel Terzo Settore, facendo emergere esperienze e analisi taciute dalla retorica prevalente su questo ambito lavorativo, dipinto come un’isola di solidarietà e cooperazione nelle nostre società individualizzate ed egoiste. Al contrario il libro dimostra come il Terzo Settore sia per certi aspetti all’avanguardia nella mobilitazione (sottopagata quando non addirittura gratuita) dell’intera personalità del lavoratore per fare fronte alle richieste del cliente (cittadino pagante o Ente pubblico) senza porre limiti né domande. La buona causa che si starebbe servendo soddisferebbe da sola le esigenze di dignità contrattuale e lavorativa che la convenzione o l’appalto non permettono di rispettare. Tra i tanti temi toccati dal libro che è uscito da questo percorso di ricerca, vorremmo sottolineare quello relativo al modo in cui il lavoratore sociale, al momento dell’assunzione o dell’avvio del lavoro in un determinato servizio, riceve il proprio mandato da parte del datore di lavoro:
Le storie riguardanti il colloquio mettono in evidenza tre caratteristiche della selezione: la professionalità incerta e flessibile, la centralità dell’attitudine e della disponibilità, la retribuzione precaria e sottopagata.
Si vuole dire che la selezione del personale, così come l’abbiamo vista all’opera nel momento saliente dei colloqui di assunzione, non è interessata a verificare una precisa definizione professionale ma punta invece a reclutare una manodopera sostanzialmente disponibile a svolgere più funzioni dall’incerto contorno: trattenimento, intrattenimento, badanza, accompagnamento, controllo. Questa selezione, dunque, sembra più preoccupata di reclutare lavoratori generici, polifuzionali e soprattutto “disponibili” da impiegare, di volta in volta, dove la situazione lo richiede [R. Curcio, (a cura di), La rivolta del riso. Le frontiere del lavoro nelle imprese sociali tra pratiche di controllo e conflitti biopolitici, ed. Sensibili alle Foglie, 2014].

Emerge dunque la diffusione di modalità di lavoro e di selezione e formazione del personale che incentivano e premiano attitudini generiche del lavoratore quali la disponibilità, la flessibilità oraria, la fedeltà all’organizzazione, la disponibilità a prestare lavoro volontario (perdonate l’ossimoro!). Sotto la pressione di risorse insufficienti e mancanza di coordinamento tra i diversi servizi, il “bravo lavoratore” non è quello qualificato, che magari esige condizioni lavorative adeguate sia in termini di retribuzione sia in termini di serietà del lavoro da svolgere, ma quello che riesce a far funzionare le cose senza porre questioni, siano esse organizzative rispetto al servizio o politiche rispetto alle tendenze complessive o al sistema di scambio che regola il rapporto tra mondo politico-amministrativo e Terzo Settore.

Dunque l’insufficiente finanziamento del welfare locale da un lato e la diffusione di forme sempre più generiche e precarie di lavoro sociale, soprattutto nel Terzo Settore, dall’altro rappresentano le principali minacce alla qualità del lavoro sociale. Si tratta di problemi che eccedono l’oggetto formale del disegno di legge Iori ma che sono al cuore del mondo cui questa legge si rivolge.

Occorre dunque ragionare e vigilare affinché non solo, come ricorda la ReNOS, non siano i lavoratori sociali a pagare il prezzo di un decennale vuoto istituzionale, ma anche perché l’enfasi sulla qualificazione formale dei lavoratori sociali non sia usata per mascherare i processi strutturali in atto che svuotano di senso e di qualità il lavoro sociale e i diritti formali dei cittadini. Si tratta di un compito difficile che va probabilmente svolto con lo sguardo in avanti e al riparo da una logica di pura difesa categoriale. Occorre riaprire la domanda su cosa sia il lavoro sociale e su che rapporto intrattenga con i sogni e i progetti di trasformazione della società che ne hanno caratterizzato la nascita.

Nell’attuale fase di ulteriore svolta imprenditoriale del lavoro sociale, indicata dalla recente riforma del Terzo Settore [La riforma del Terzo Settore è stata approvata in via definitiva il 25 Maggio 2016], sono più che mai necessarie analisi, riflessioni, sperimentazioni e costruzioni di reti dal basso tra operatori e tra operatori e utenti che indichino la via di un modo altro di svolgere “con competenza” il lavoro di educatore.

Milano, Settembre 2016
Maleducatore

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