Il diritto alla festa – Appunti sui comitati anti-movida

spaceChe cos’è una città? Come definiamo l’urbano? E come possiamo abitarlo?
Henry Lefebvre ci offre alcune suggestioni per immaginare, di nuovo, il diritto alla città, che a Milano sembra sempre più contrapposto al diritto alla quiete, al riposo, alle strade linde e vuote e ai comitati più vari e anacronistici che portano avanti una battaglia contro la “movida”.
I toni dello scontro sono ormai apocalittici, con i comitati anti-movida che si considerano i soli e unici abitanti ad avere diritto alla città, ultimo baluardo di fronte alla barbarie di giovani sciagurati che bevono e schiamazzano regolarmente sotto le loro finestre nel centro della metropoli (finestre sulle quali sembra impossibile installare i doppi vetri).
Ma Lefebvre ci ricorda che proprio l’impossibilità di trovare una tipologia di cittadini è quello che caratterizza la composizione della città:

L’urbano, indifferente ad ogni differenza che esso contiene, passa spesso per indifferenza confusa con quella della Natura […]. Ma l’urbano non è indifferente a tutte le differenze, poiché appunto le riunisce. In questo senso la città costruisce, sprigiona, libera l’essenza dei rapporti sociali: l’esistenza reciproca e la manifestazione delle differenze provenienti dai conflitti o andanti fino ai conflitti. (Henry Lefebvre, La rivoluzione urbana, 1973)

Questo carattere dell’urbano, terreno costante delle differenze, si distingue da quello di qualsiasi altra comunità che si riunisce sulla base delle affinità, delle convergenze, delle visioni del mondo comuni; ma lo distingue anche da quei paesi che non hanno le caratteristiche dell’urbano perché, per quanto gli abitanti non si siano scelti, finiscono per potersi conoscere tutti e assomigliarsi.
La città è abitata dalle differenze e pensare di poterle nascondere o costantemente normare significa voler togliere l’urbano dalla città, voler trasformare i rapporti sociali in un terreno di uniformità privo di conflitti, certo, ma anche privo di significato.  E i comitati anti-movida vorrebbero fare proprio questo, senza accorgersi di essere loro, per primi, la causa di molti mali che lamentano.
I primi bersagli dei comitati milanesi sono stati i parchi: spaccio, degrado, assembramenti, criminalità erano diventati gli spauracchi con i quali si invocavano cancellate e vigilantes, chiusure e cancelli. Le cancellate sono prontamente arrivate e il risultato è stato quello di dare spazio e agio ai locali, ai bar e agli spazi chiusi, di trasformarli nell’unico luogo di riunione e divertimento possibili, fuori dalla vista dei rispettabili cittadini e con la speranza che fossero più controllabili. I locali sono cresciuti e man mano è cambiata l’idea di “uscire”: per entrare in un bar devo consumare qualcosa, di solito degli alcolici, creando così il binomio che ora i comitati lamentano di alcool e movida.
Nel frattempo i bersagli si sono moltiplicati: recentemente anche le panchine sono state accusate di favorire la movida per il semplice fatto di offrire un posto in cui sedersi. Le colonne di San Lorenzo brillano costantemente come luogo scandalo per i comitati, che sono gli stessi, paradossalmente, che hanno chiesto la chiusura di piazza Vetra che poteva offrire uno sfogo ai frequentatori che si ammassano di fronte alla basilica, uno dei pochi posti rimasti aperti, che accoglie tutti i profughi dei luoghi che man mano vengono chiusi (uno su tutti: i giardini di fronte al Mom). In questa lotta senza quartiere ogni mezzo è valido: anche disegnare un naso da pagliaccio sul ritratto di un ragazzo morto (vi sfido a immaginare che invece di essere il volto di Carlo e la mano di una mamma del parco, fosse stato il volto di un parroco e la mano di un ragazzo di Zam: saremmo già all’accusa di terrorismo). Il parossismo è arrivato al massimo con le denunce al Comune di Milano fatte degli abitanti di una casa che ancora non è costruita per dei concerti che ancora non ci sono stati: parliamo del cratere di fronte alla Fabbrica del Vapore (che sarà una casa) che già raccoglie un comitato che si lamenta dei futuri concerti nel cortile, come se la movida fosse uno schema sempre uguale impossibile da modificare e le azioni di contrasto non potessero che essere automatiche e ormai anche preventive.

kid_in_menger_spongeL’immagine che più forte appare dalla storia dei comitati anti-movida è quella dell’accerchiamento: spingiamo i “giovani” in luoghi sempre più stretti e angusti, prima o poi si stuferanno e la smetteranno. Sempre Lefebvre, però, delineando il diritto alla città, ci ricorda che questo movimento non allontana soltanto dalla città, ma anche dalla società:

[Il diritto alla città] significa il diritto dei citoyens-citadins, e dei gruppi che essi costituiscono […] a essere presenti su tutte le reti, su tutti i circuiti di comunicazione, di informazione, di scambio. […] Escludere dall’«urbano» i gruppi, le classi, gli individui, equivale a escluderli dal processo di civilizzazione, se non dalla società. Il diritto alla città legittima il rifiuto a lasciarsi escludere dalla realtà urbana da parte di un’organizzazione discriminatoria e segregativa. […] Il diritto alla città significa allora la costituzione o la ricostruzione di un’unità spazio-temporale, di una riconduzione ad unità invece di una frammentazione. (Henry Lefevbre, Spazio e politica. Il diritto alla città II, 1976)

L’esclusione dall’urbano, l’impossibilità a godere del diritto alla città diventa esclusione dalla società: i comitati, quindi, allontanano dalla civilizzazione proprio quelli che vorrebbero civilizzare, in un circolo vizioso che non può essere spezzato. A questo proposito è rivelatrice l’immagine di una donna che a un convegno sulla movida urla in faccia ad Alessandro Capelli “io me ne fotto di mio nipote” come risposta a chi provava a sottolineare come tra i giovani dei quali si lamentava ci fosse anche il nipote. Questa donna mostra come l’odio per la movida e la volontà di escludere i suoi frequentatori riesca anche a spezzare il cerchio familistico che sembra caratterizzare tutti gli aspetti della cultura italiana.
Ripensare la vita a Milano alla luce di un diritto alla città significa, invece, provare a ricostruire: il diritto a resistere all’esclusione è strettamente legato alla capacità di immaginare uno spazio pubblico e comune attraversato dalle differenze. Ricondurre all’unità non significa azzerare la differenza e trasformare la città in un sorta di Milano2 coi cigni, i laghetti e le telecamere, ma valorizzare la differenza e dare spazio, sia in senso figurato che reale, a tutti quelli che la esprimono. Il diritto alla città è quello di poter prendere parte alla vita cittadina in tutta la sua pienezza e deve valere per tutti quelli che l’attraversano e soprattutto per quelli che ne ampliano le possibilità.
Inoltre il diritto alla città non può essere disgiunto dal diritto alla festa, inteso come diritto ad uscire dalla quotidianità. In uno spazio cittadino dominato dai rapporti di produzione, dall’efficienza, da una quotidianità alienata, l’unico modo per sovvertire questa situazione è quello della festa. Una festa che diventa momento di svago, ma anche momento di rottura e che permette di godere dell’urbano in tutte le sue forme, in tutte le sue possibilità, uscendo dai meccanismi costantemente riprodotti che scandiscono le nostre vite. Il diritto alla città, quindi, non può dirsi completo senza il diritto alla festa, senza la possibilità di godere degli spazi non solo in maniera funzionalistica, ma anche in modo inaspettato, gratuito e dirompente.
E chissà mai che proprio la festa non possa condurci alla Rivoluzione (che sia questo che temono i comitati?):

La Rivoluzione (violenta o non violenta) prende quindi un senso nuovo: distruzione del quotidiano, ripristino della Festa. […] La rivoluzione non si definisce dunque solamente sul piano economico, politico o ideologico, ma più concretamente attraverso la fine del quotidiano. […] Mette fine al suo prestigio, alla sua razionalità, a quell’opposizione fra quotidiano e festa (fra lavoro e tempo libero) che è il fondamento della società. (Henry Lefevbre, La vita quotidiana nel mondo moderno, 1979)

(Nota a margine. Il lavoro dei comitati è un po’ come quello di svuotare il mare con un cucchiaino: togli la movida da un lato e ti rispunta dall’altro. So che a loro non importa perché guardano solo sotto le loro finestre, ma chi li sostiene dovrebbe pensarci. E su questo vi lascio con Engles, basta sostituire abitazioni con movida e necessità economica con diritto alla festa:
In realtà la borghesia conosce solo un modo per risolvere il problema delle abitazioni, e si tratta di una soluzione che riproduce di continuo il problema. È il metodo chiamato “di Haussmann”… Le ragioni possono essere le più diverse ma il risultato è sempre lo stesso: i vicoli sordidi e le stradine malfamate scompaiono, permettendo alla borghesia di congratularsi sfacciatamente con se stessa per il magnifico successo conseguito, ma ricompaiono immediatamente da qualche altra parte… La stessa necessità economica che li ha prodotti in un luogo li riproduce in un altro. Engels, La questione delle abitazioni, 1872)

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