Il mio racconto di queste elezioni turche – Prima puntata

A picture of Prime Minister Recep Tayyip Erdogan, altered to look like Adolf Hilter, is stuck onto a electricity column at the Taksim square in Istanbul on Thursday, June 6, 2013. Turkish officials, scrambling to contain tensions, have delivered more conciliatory messages to thousands of protesters denouncing what they say is the government's increasingly authoritarian rule and its meddling in lifestyles. (AP Photo/Thanassis Stavrakis)

(AP Photo/Thanassis Stavrakis)

Riceviamo e molto volentieri pubblichiamo di seguito il racconto in due puntate di VC, antropologo e cooperante, in Turchia al momento delle ultime elezioni. Buona lettura!

Il mio racconto di queste elezioni turche, di cosa hanno significato per me e gli amici turchi con cui le ho vissute, comincia con una divagazione. Siamo alla fine del maggio 2013 ed i riflettori di tutto il mondo sono puntati sulle proteste di Gezi Park. Studenti e attivisti aumentano rapidamente ad Istanbul e nelle principali piazze della Turchia, i sindacati scioperano in segno di solidarietà, tutta le politiche neoliberiste e conservatrici del governo turco sono sotto attacco per giorni, prima che l’allora primo ministro Recep Tayyip Erdoğan opti per una durissima repressione, lasciando sul campo 9 morti e migliaia di feriti. In quelle serate, tutti eravamo a Gezi Park e vedendo quei giovani turchi scendere in piazza a cantare “Bella ciao” e contestare un governo sempre più autoritario, conservatore e corrotto, non potevo non pensare che, se i casi della vita mi avessero fatto nascere in Turchia, anziché in Italia, sicuramente sarei stato lì, a cantare e lottare assieme a loro. Poi tutto finì con una repressione violenta e autoritaria, l’avvio di una lunga ondata di arresti e limitazioni alla libertà di espressione ancora in corso. Nell’arco di pochi giorni, Gezi Park era sparita dalla scena internazionale, ed Erdogan ritornato un prezioso partner commerciale e imprescindibile alleato per la stabilità del Medio Oriente.

Da allora tante cose sono cambiate. Erdogan ha proceduto con sempre maggior decisione sulla sua strada, cercando di trasformare radicalmente le istitutuzioni turche. Non avendo i numeri, in parlamento, per una riforma complessiva della costituzione – che necessita di una maggioranza dei due terzi del parlamento – ha ottenuto un cambiamento apparentemente marginale, l’elezione diretta del presidente della repubblica, fino a quel momento considerato, come da noi, un garante delle istituzioni da eleggere tramite un’ampia maggioranza parlamentare. Nell’estate del 2014, con il 52% dei voti, diventa il primo presidente direttamente eletto. Sebbene la sua carica rimanga formalmente rappresentativa, con essa Erdogan ottiene l’immunità dalle varie indagini di corruzione che mettono sotto accusa i suoi 12 anni da primo ministro; e si pone apertamente come obiettivo la maggioranza dei due terzi per il suo partito, l’AKP, così da potersi ritagliare una costituzione su misura, rendendo la Turchia una repubblica presidenziale. Le elezioni parlamentari sono previste per giugno 2015: i due principali partiti di opposizione, il partito kemalista CHP – fondato da Ataturk e ispirato alla sua ideologia repubblicana, laica e nazionalista – ed il partito nazionalista MHP – in Italia forse più noto come il movimento dei “lupi grigi” e animato da un nazionalismo estremo – sono in profonda crisi e nessun altro partito sembra in grado di superare lo sbarramento del 10% per entrare in parlamento. L’attuale costituzione, scritta dai militari dopo il colpo di stato del 1980, ha introdotto questo sbarramento insolitamente alto per prevenire la nascita di qualunque partito curdo – che difficilmente avrebbe potuto superare quella soglia – e limita notevolmente l’arco dei partiti rappresentati in parlamento. Con una buona affermazione dell’AKP e due sole forze politiche a contrastarlo, la maggioranza dei due terzi è un obiettivo realistico. Erdogan avvia, inoltre, una politica sempre più aggressiva sul piano internazionale: supporta in maniera spregiudicata l’ISIS, per indebolire il suo nemico Assad ed i miliziani curdi in Siria; e affossa il processo di pace avviato con il leader del PKK, Abdullah Ocalan, nel 2013. In Siria ed Iraq i curdi stanno resistendo efficacemente allo Stato Islamico e la loro forza spaventa l’aspirante Sultano. Tutto il mondo osserva incredulo l’esercito di Ankara sigillare la frontiera con la Siria, impedendo ai combattenti curdi di supportare i loro compagni nella battaglia di Kobane. Atroci massacri si susseguono a pochi chilometri dalla frontiera, sotto gli occhi indifferenti dell’esercito turco.

L’arroganza e la spregiudicatezza del Sultano si riveleranno, però, controproducenti. Lo stallo delle trattative coi curdi ed il crescente malcontento di quell’ampia fascia di popolazione – curdi, progressisti, donne, gay e le varie minoranze etniche e religiose del paese– che si sente sempre piu’ ai margini della Turchia autoritaria e conservatrice disegnata dal Sultano, portano queste variegate realtà ad unirsi all’interno di un nuovo partito, l’HDP, il partito dei popoli democratici. Selahattin Demirtas, avvocato curdo, militante per i diritti umani e coinvolto da Ocalan nel processo di pace, è copresidente del partito, assieme ad un’attivista turca per i diritti delle donne, Figen Yüksekdağ perché in tutti i ruoli dell’HDP ci deve essere una perfetta parità di genere. I curdi, che nei primi anni di Erdogan avevano costituito una parte importante dell’elettorato AKP perche’ apparentemente più aperto al dialogo dei suoi predecessori nazionalisti, abbracciano questo nuovo progetto, cosi’ come la grande parte dei reduci di Gezi park, scacciati dalle piazze, ma certo non spariti dal paese. Per la prima volta i curdi – che alle elezioni erano soliti presentare singoli candidati indipendenti, unico sistema per eludere lo sbarramento – così come le altre minoranze del paese hanno una voce a rappresentarli a livello nazionale e lottare per una Turchia diversa, democratica, egualitaria e inclusiva. Alle presidenziali l’HDP sostiene Demirtas ed ottiene un eccellente 9,7%, rappresentando per molti l’unica, vera alternativa al conservatorismo religioso di Erdogan ed a quello nazionalista di CHP ed MHP. Si arriva così alle elezioni parlamentari di giugno 2015, quelle che avrebbero dovuto sancire il controllo totale del parlamento da parte dell’AKP e l’avvio delle riforme per l’inconorazione del nuovo Sultano. L’HDP ottiene uno sorprendente 13,2%, entrando in un parlamento in cui, a sorpresa, l’AKP non solo ha mancato la maggioranza dei due terzi, ma non ha più nemmeno la maggioranza semplice del parlamento.

Quello che accade dopo è storia recente: la ripresa su vasta scala del conflitto coi curdi, la repressione della stampa e di ogni dissenso politico, una martellante campagna mediatica a favore del suo partito e minacce ed intimidazioni di ogni genere verso l’HDP ed i suoi militanti. Sono in centinaia a pagare con la vita, nei tre tragici attentati di Dyarbakir, Suruc e Ankara e per le violenze dell’esercito in Kurdistan, o con violenze e arresti arbitrari, il prezzo del fallimento politico dell’AKP. Il Sultano teme che gli esiti di una nuova sconfitta possano essergli fatali: un governo di coalizione che faccia emergere i casi di corruzione finora insabbiati; uno stallo istituzionale che porti i membri del suo partito a voltargli le spalle e abbandonare la riforma presidenzialista; o, peggio ancora, un’accrescersi della tensione che spinga i militari, il cui ruolo nella vita politica paese è stato fortemente ridimensionato dall’AKP, a rovesciare o “dimissionare” il governo, come già accaduto quattro volte tra gli anni ‘60 e gli anni ’90, l’ultima proprio a danno del padre politico di Erdogan, Necmettin Erbakan. Per questo è disposto a tutto pur di vincere. Le opposizioni, dal canto loro, pensano di avere un’opportunità unica per liberare la scena politica da una presenza sempre più dispotica e incontrollabile. Per tutti coloro messi ai margini dalle politiche di Erdogan è l’occasione per progettare una Turchia diversa da quella del Sultano. Con tutte queste incertezze, la Turchia si reca alla urne il 1 Novembre.

Un’altra cosa è cambiata, per me, dai tempi di Gezi Park: ho conosciuto Stella, la mia attuale compagna, insieme alla quale ho seguito questi ultimi sviluppi politici. Stella è una ragazza turca, originaria della regione del Mar Nero, una zona rurale negli ultimi anni tendenzialmente favorevole all’AKP. Stella ha vissuto la sua giovinezza ad Ankara, studiando Sociologia nella principale università pubblica della città. Come molti della sua generazione, ha vissuto l’ascesa politica di Erdogan da adolescente. Molti, nella sua famiglia, l’hanno salutata come una ventata di aria fresca, capace di liberare la scena politica da una classe dirigente screditata, di raddrizzare l’economia e ridurre l’intensità di quella che nel decennio precedente era una vera e propria guerra tra l’esercito turco ed il PKK. Stella è all’università negli anni della deriva autoritaria e conservatrice del primo ministro e in quegli ambienti, tradizionalmente ostili al potere turco, comincia a frequentare collettivi e associazioni che criticano l’AKP, il suo attacco ai diritti dei lavoratori, i suoi tagli all’istruzione pubblica – in linea con i dettami neoliberisti pedissequamente applicati dall’AKP – così come la stretta su diritti civili e libertà di espressione. Gezi Park è la scintilla che anima tutte queste forze e Stella, come la gran parte dei suoi amici, si trova per le strade di Ankara a solidarizzare coi compagni di Istanbul, fino alla repressione, brutale nella capitale come nelle altre città del paese. “E’ una fortuna che nessuno di noi si sia fatto seriamente male in quei giorni”, mi racconta quando le chiedo di come ha vissuto quel periodo. “Io, mia sorella Luna, e la gran parte dei miei amici, eravamo tutti i giorni in piazza, non c’era nemmeno bisogno di chiamarsi. Tutti avevamo qualche amico da Istanbul, che ci raccontava di come la folla crescesse ogni giorno, speravamo di poter chiudere finalmente con Erdogan, e invece lui è ancora li, e noi siamo fortunati ad essere ancora tutti qui, tutti interi. In molti si sono trovati nei guai, arrestati, picchiati, uccisi, in quei giorni”. Erdogan è considerato il grande responsabile di quelle violenze: per lui, il pugno di ferro era necessario a compattare il suo seguito ed accreditarsi come l’unica garanzia di stabilità nel paese. Da allora è stata guerra aperta: i ragazzi di Gezi Park cosi’ come i curdi e chiunque critichi il governo sono terroristi, minacce per il paese, da reprimere con la fermezza più totale.

Stella era con me in Inghilterra il 10 ottobre, il giorno della bomba alla marcia per la pace di Ankara. Il panico, le frenetiche chiamate, alla sorella, che avrebbe dovuto manifestare, ma che ancora, fortunatamente, non era uscita di casa; al cugino, già in marcia verso il corteo, ma fermato nel suo percorso dalla terribile esplosione e dalle sirene; e a tutti gli amici che era certa fossero lì. Quando siamo sicuri che nessuno è rimasto coinvolto, vediamo insieme il video dell’esplosione, così simile a quello di Suruc dello scorso luglio: ragazzi che cantano e danzano per strada, poi uno scoppio, urla disperate e denso fumo nero. Lei piange a lungo, mentre sui social media si susseguono gli appelli a donare sangue per aiutare i feriti e le denunce per le violenze della polizia, così inefficace nel difendere i manifestanti, così reattiva nel circondare e malmenare i superstiti. Da quel giorno l’HDP, tra i principali promotori della marcia, annulla ogni evento pubblico, per non mettere a repentaglio l’incolumità dei propri militanti. Pochi giorni dopo, la nazionale turca si gioca l’accesso agli europei di calcio a Konya, città natale dell’attuale primo ministro Ahmet Davutoglu e tradizionale roccaforte conservatrice, in cui l’AKP supera abbondantemente il 70% dei consensi. Lo speaker chiede un minuto di silenzio per gli oltre 100 morti di Ankara e gran parte dello stadio fischia e inveisce contro di loro. Quando Stella venne a Milano, visitammo insieme Piazza Fontana e le mostrai la due lapidi a ricordo di Pinelli, quella dello stato – “morto tragicamente” – e quella vera – “ucciso innocente”. Sono passati più di 40 anni e ancora non siamo stati capaci di riconciliarci e costruire una memoria condivisa, in Italia, attorno a quella come a tante altre stragi. Quanto tempo ci vorrà, in Turchia, dove coi morti a ancora caldi in strada, la maggior parte dei media insinuava che la bomba l’avesse messa il PKK, che l’HDP lucrasse su quelle vittime per danneggiare Erdogan, e migliaia di persone, in uno stadio, non sono state capaci nemmeno di stare semplicemente zitte per rispettare quei morti innocenti? Stella non lo sa, mi dice solo che si vergogna di essere turca, di vedere tutto questo, di dover sopportare le squallide menzogne di uno stato che, nella più lusinghiera delle ipotesi, non è stato capace di proteggere l’incolumità dei suoi cittadini nel cuore della sua capitale.

Qui la seconda puntata.

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Una risposta a “Il mio racconto di queste elezioni turche – Prima puntata”

  1. […] alla minoranza curda. Una repressione aumentata d’intensità dopo le elezioni di Novembre (1 / 2). Proprio così. La Turchia fa la guerra all’unica forza che, in questo anno e mezzo ha […]

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