[DallaRete] Cronache di una guerra annunciata

policeStati d’eccezione e stati d’impotenza

Durante il blitz dell’antiterrorismo nella banlieue parigina di Saint Denis, l’attesa snervante della fine del coprifuoco è diventata l’occasione per sederci intorno a un tavolo e ragionare sui fatti di questi giorni e su ciò che potrà succedere nei prossimi.

Farenheit 13/11

Mercoledì 18 novembre e di nuovo le scuole e i negozi sono chiusi, i trasporti fermi, non si può uscire di casa. A Saint Denis la giornata è iniziata così. Un blitz delle forze di polizia ed esercito ha paralizzato di nuovo la vita del quartiere popolare a Nord di Parigi con un’incursione da 5.000 munizioni in un appartamento con l’obiettivo di catturare il mandante delle stragi di venerdì scorso.
Se dopo lo shock dei primi giorni Parigi sta facendo fatica a riprendere la quotidianità, oggi ci si chiede quale sia la quotidianità possibile.
Mentre le teste di cuoio completavano il blitz nel “covo” di rue du Corbillon, stamattina veniva portato al consiglio dei ministri il progetto di legge per la proroga dello stato d’emergenza.
Un progetto legislativo che annuncia una netta svolta autoritaria e, di fatto, uno stato d’eccezione permanente.
Ciò significherebbe, in sostanza, l’estensione, ai prossimi tre mesi, delle restrizioni alle libertà individuali e collettive già in vigore da venerdì scorso: interdizione di riunioni e assembramenti pubblici, annullamento di manifestazioni e scioperi, possibilità di instaurare coprifuoco, controllo della stampa e dei mezzi di informazione, possibilità di chiusura di locali, bar, cinema e teatri, perquisizioni diurne e notturne senza autorizzazione giudiziaria, potere alle forze di polizia di assegnare una residenza forzata a soggetti ritenuti “minacciosi”.
Oltre al progetto di legge odierno, la prospettiva è una riforma degli articoli 16 e 36 della costituzione, per arrivare a normalizzare, rendendoli ordinari, i poteri speciali dell’esecutivo, ad oggi autorizzati dallo stato d’emergenza.
Non si tratta di un progetto a venire, ma di operazioni già in atto. Oltre al blitz di Saint Denis, sono in totale 414 le perquisizioni effettuate in soli tre giorni, la maggior parte delle quali senza legami diretti con l’inchiesta sugli attacchi di venerdì.
Risale al 1961 il primo utilizzo di queste misure straordinarie, ad opera di De Gaulle, nel corso della Guerra d’Algeria. Di questa fase va però ricordato un episodio strettamente connesso e conseguente: il massacro poliziesco del 27 ottobre, a Parigi, durante un’imponente manifestazione pacifica di cittadini algerini per l’indipendenza. Questa manifestazione violava il “coprifuoco etnico”, messo in atto dal governo De Gaulle, contro gli algerini, e per estensione contro tutti i maghrebini, che non potevano uscire per strada dalle 20.30 di sera alle 5.30 del mattino. Ci furono più di 200 morti e 11.000 arresti, con persone, vive e morte, gettate nella Senna.
Un ulteriore e più recente “ricordo mancato” è lo stato di emergenza del 2005, durante le rivolte delle banlieues di cui si è celebrato il decennale proprio nelle scorse settimane. Il coprifuoco e le misure d’emergenza furono allora messe in atto per riportare l’ordine e il controllo nelle periferie popolari francesi, insorte dopo l’assinio da parte della polizia, di due adolescenti, Zyed e Bouna.
Due eventi rimossi che fanno emergere gli spettri coloniali, post-coloniali e razziali dietro a questo dispositivo, che ancora oggi legittimano la criminalizzazione su base etnico-religiosa e indirizzano le vaste operazioni poliziesche di “neutralizzazione del pericolo”.
“I morti di venerdì, lo stato d’emergenza e le sue norme ci colpiscono tutti indiscriminatamente” è un concetto che viene riprodotto spesso in questi giorni, in svariati ambiti e da differenti latitudini sociali e politiche.
Colpiti tutti emotivamente, da un lato, tutti a rischio di essere colpiti, da un altro, e ancora, da ultimo, colpiti tutti dalle conseguenze autoritarie.
Ma volendo prendere in considerazione attentamente quello che sta succedendo e continuerà a succedere, no, non siamo colpiti tutti allo stesso modo.
I già numerosi attacchi alle moschee in tutta la Francia, le perquisizioni a tappeto e il pretendere le “scuse” dei musulmani di tutto il mondo fanno emergere nuovamente la costruzione del “nemico interno islamico”, continuamente alimentata dal discorso mediatico.
Sono solo i primi segnali, questi, che annunciano un’incredibile ondata di islamofobia e violenza razzista pronta a colpire gli Arabi, i Neri, i Rom, i rifugiati e i migranti, gli abitanti dei quartieri popolari, tutti i soggetti racisés (razzizzati) e percepiti come musulmani: sono sempre gli stessi a pagare il prezzo più alto.
Una violenza non solo propagandata e praticata dai settori dell’estrema destra, ma soprattutto attuata dalle misure eccezionali di polizia e alimentata dal clima di sospetto che serpeggia per le strade.

La città (di Raqqa) verrà distrutta all’alba

Gli annunci del governo francese, fin dai primi minuti dopo l’attentato, propongono di essere spettatori di un film thriller: una guerra ipermediatizzata, che ha fatto scorrere sangue nelle strade vicino a te, rendendo la paura reale, forte, palpabile.
Puoi ascoltare, puoi piangere e terrorizzarti, mettere mi piace su facebook, diventare follower della République e modificare la tua immagine del profilo col tricolore francese.
Ma non puoi intervenire, anche se si parla di te, mentre “vieni parlato” dagli attori sullo schermo. Il tuo coinvolgimento diventa una parte scritta del film, sei una comparsa, sotto shock, dentro una pellicola scritta, diretta e interpretata dallo stesso soggetto. “Il terrorismo non distruggerà la repubblica, perché la repubblica lo distruggerà. Vive la République. Vive la France” sono le parole di François Hollande di lunedì pomeriggio davanti al Congresso del Parlamento. Segue uno scroscio di applausi, interrotti solo dal canto della marsigliese.
Ciak e azione: e a Raqqa si sgancia una pioggia di bombe.
Eppure l’esercito francese non ha iniziato a bombardare domenica scorsa, né a gennaio dopo “Charlie”…
Ripercorrere la storia bellica della V Repubblica richiederebbe un lungo approfondimento, ma la politica coloniale e militare francese, nonchè il suo ruolo nelle missioni Nato, non appartiene soltanto alla storia; sono numerosi i fronti in cui ancora oggi, l’esercito francese si schiera ed uccide: Iraq, Libia, Mali, Siria.
Vos Guerres Nos Morts”, è lo slogan che circola diffusamente su siti e social network in questi giorni. “Le vostre guerre. I nostri morti”.
Sì, perchè sono guerre che non hanno scelto gli abitanti di Parigi, né il resto dei francesi, tantomeno le popolazioni iraqene, libiche, maliane o siriane.
Sono guerre che non appartengono a nessuno dei popoli toccati, feriti, coinvolti e terrorizzati dalla violenza che gli si abbatte contro. Perchè nessuno di questi, né noi che scriviamo né tu che leggi, abbiamo mai avuto potere decisionale sulla politica militare dei governi dei nostri paesi, mai deliberato su guerre preventive, bombardamenti lampo, o sedicenti missioni di pace.
Hollande ha dichiarato che la Francia è ufficialmente in guerra.
Pardon Monsieur, ma era così da ben prima che aveste il coraggio di dirlo, e nessuno di noi lo ha mai deciso.
Siete voi che siete in guerra.


E ora dove andiamo?

Ogni singola testimonianza dei fatti di questi giorni è una storia a sé, di cambiamenti rapidi, violenti e improvvisi, incastrata in un groviglio di emozioni e dubbi sulla loro legittimità.
Anche oggi, a Saint Denis, scuole, università, metropolitane e posti di lavoro, sono stati chiusi per consentire lo svolgimento dell’operazione militare.
Domani si faticherà nuovamente a riprendere le lezioni, probabilmente la didattica lascerà il posto a nuovi momenti di discussione.
Cominciare a raccontare quel che è successo è un modo per dargli un nome, fuori dagli schermi e dalle pagine di cronaca. Condividere non è immediato né scontato. Costruire una narrazione differente da quella della Francia colpita e pronta a reagire non sembra concesso.
Eppure, ritrovi spontanei per condividere il lutto hanno scavalcato il divieto di assembramento in luoghi pubblici, e ignorato l’ordine della polizia di tornare a casa.
Noi abbiamo la possibilità di rielaborare e trasformare lo stato d’impotenza che ci viene imposto, provare a costruire spazi di analisi politica nel quotidiano, che non sfumino nell’estemporaneo e nel sensazionalismo, ma provino a cucire una relazione permanente tra riflessioni e azioni concrete.
La solidarietà con chi – e tra chi – ha lottato finora in questo paese contro le espressioni strutturali di razzismo, islamofobia, marginalizzazione sociale e oppressione è oggi quanto mai fondamentale.
Una solidarietà che spezzi la retorica dell’unità nazionale contro il terrorismo per riconoscere che i legami che ci uniscono davvero, le relazioni che creano forza sono altre, vanno in direzione opposta alle strategie della paura e a chi le mette in campo.
Mettere fine collettivamente allo stato d’emergenza, ripudiare le guerre imperialiste, esigere la riapertura delle frontiere, difendere l’accoglienza ai rifugiati e i diritti dei sans papiers, inondare le strade con la nostra dignità, sono l’unica vera sicurezza: dare voce alle nostre vite mette a tacere le loro guerre.

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