[DallaRete] Licenziamenti – la legge del più forte

Ichino-in-Senato-copiaSe il licenziamento è, per un qualsiasi motivo, contrario all’ordinamento, perché mai l’ordinamento stesso non dovrebbe privarlo dei suoi effetti giuridici?

Questa domanda, estremamente opportuna, non l’ha pronunciata Maurizio Landini né Alessandro Villari (si parva licet…). Le parole sono di Pietro Ichino, nel corso della sua relazione al Senato che ieri, con il voto compatto della fantomatica minoranza del PD (tranne l’unico, lodevole per quanto inutile, voto contrario di Corradino Mineo) ha approvato in via definitiva la legge delega sul lavoro, meglio nota come Jobs Act.

La risposta di Ichino al più che ragionevole quesito è contenuta in queste cinque pagine di fuffa, che si possono riassumere con “perché vogliamo così“.

Fermo restando che quella approvata è una legge delega, e che per conoscere l’effettiva portata delle modifiche bisognerà comunque aspettare i decreti legislativi di attuazione, possiamo iniziare a sintetizzare alcuni punti già sufficientemente chiari.

Si comincia con l’abolizione della cassa integrazione straordinaria in caso di cessazione dell’attività aziendale: quello che è un sostegno concreto e necessario, tanto più in questi anni di crisi, fallimenti e delocalizzazioni, per centinaia di migliaia di lavoratori, viene sprezzantemente definito come una specie di frode. Dopo che la legge Fornero ha abolito l’indennità di mobilità (a partire dal 2017), ai lavoratori che saranno immediatamente licenziati non resterà che sperare di trovare rapidamente un nuovo lavoro, prima che finisca il trattamento di disoccupazione (ASpI). Trattamento che sarà oltretutto rimodulato e rapportato alla pregressa storia contributiva del lavoratore – dunque, giovani precari, per voi sostanzialmente non ce n’è – e limitato entro un certo tetto nei casi in cui il precedente datore di lavoro abbia omesso il versamento dei contributi. Mi spiego meglio: oggi, se il datore di lavoro non versa all’INPS i contributi previdenziali che dovrebbe pagare, per il lavoratore relativamente poco importa perché ai fini pensionistici e delle prestazioni di sostegno al reddito è come se li avesse versati, purché il contratto sia registrato – sono i cosiddetti contributi figurativi; con la riforma, se il datore di lavoro non versa i contributi che dovrebbe (e magari poi fallisce, così non gli si può chiedere più nulla) l’indennità di disoccupazione sarà pagata solo in parte.

“Per fortuna”, secondo il governo, la riforma porterà “un forte sostegno e assistenza alla persona nel mercato del lavoro, in particolare nel passaggio dalla vecchia occupazione a una nuova“. Purtroppo, in che cosa consistano sostegno e assistenza non è dato sapere. Detto dell’ASpI, la legge delega infatti si limita in buona sostanza, da un lato, a prevedere che il lavoratore debba attivarsi per trovare una nuova occupazione, con tanto di sanzione se non lo fa con sufficiente impegno; dall’altro, ad attribuire assoluta centralità alle agenzie di lavoro private (oltretutto ulteriormente sovvenzionate): come questo possa rappresentare un miglioramento rispetto a oggi per chi cerca un lavoro, rimane un mistero.

E veniamo alla nuova disciplina dei rapporti di lavoro, cuore della riforma. Cambia in sostanza il significato dell’espressione “a tempo indeterminato” che pur sempre caratterizza la “forma comune” dei contratti di lavoro: se fino a oggi, nonostante i colpi inferti dalla Fornero, significava che l’eventuale cessazione del rapporto l’avrebbe decisa il lavoratore, salvo validi motivi per un licenziamento, adesso consiste nell’esatto contrario: non c’è scadenza, dunque il datore di lavoro può decidere di mandarti via quando vuole, limitandosi a pagare una quantità di denaro proporzionata alla durata del rapporto. È questo, nella sua essenza, il contratto a tutele crescenti.

Nella sua relazione Ichino ha chiarito, per chi non l’avesse ancora compreso, che l’emendamento approvato dalla Camera rispetto alla formulazione originale, lungi dall’attenuare la portata della riforma “conferma e precisa in modo inequivocabile l’intendimento del legislatore di escludere la sanzione della reintegrazione per tutti i licenziamenti non sorretti da contestazione disciplinare e per la generalità dei licenziamenti disciplinari“. Ipse dixit, con buona pace della farlocca minoranza PD che si è divisa tra chi ha votato sì perché convinta che gli emendamenti migliorassero la riforma, e chi ha votato sì pur non essendo convinta ma solo per non far cadere il governo.

Sono compresi nel campo di applicazione della riforma anche tutti i licenziamenti collettivi, che sono economici per definizione, compresi verosimilmente quelli – e qui sta un’altra bella fregatura – che si verificano nel caso di un cambio di gestione. Anche qui è il caso di spiegare: nei settori caratterizzati da appalti (la logistica, i trasporti, le pulizie, i servizi affidati a cooperative sociali, tanto per citarne alcuni, che coinvolgono qualche milione di lavoratori) quando cambia la gestione, normalmente, tutti i lavoratori addetti al servizio passano dall’azienda che se ne va a quella che entra, in modo che sia garantita la continuità della prestazione lavorativa; tecnicamente, vengono licenziati da quella vecchia e assunti ex novo da quella nuova. Nel sistema attuale non cambia nulla nella loro tutela in caso di licenziamento illegittimo, perché le sanzioni non sono legate, se non in parte, alla durata del rapporto. Ma nel sistema del contratto a tutele crescenti invece è proprio e soltanto la durata del rapporto a determinare l’entità del risarcimento in caso di qualsiasi licenziamento illegittimo: perciò i lavoratori di tutti i settori in cui sono frequenti i cambi di appalto, i cui rapporti di lavoro con la singola impresa durano sempre pochi anni, potranno sempre essere licenziati illegittimamente per pochi spiccioli, perché a ogni cambio di appalto la tutela ripartirà da zero.

In sostanza, lo scopo della riforma è proprio quello di rendere sostanzialmente arbitrario il potere del padrone sul lavoratore, eliminando o rendendo inutilizzabili i vincoli che, proprio per evitare questo, erano stati fissati dalle generazioni precedenti, anche grazie a lotte epocali. Il principio non vale solo per i licenziamenti, ma anche per il potere di modificare anche in peggio le mansioni dei dipendenti, notevolmente ampliato rispetto a oggi, e al potere di controllo a distanza, che sarà aumentato tenendo conto dei nuovi strumenti tecnologici.

Certo, si potrebbe sostenere per consolarsi un po’, se non altro è in qualche modo accennata l’intenzione di eliminare i contratti a progetto (ecco perché sono così liberali nell’estendere un pezzetto di ASpI a questa categoria). Ma quello che dà con una mano, il governo lo toglie prontamente con l’altra, prevedendo l’estensione del “lavoro accessorio“, ossia quello pagato con i voucher: in pratica, pare di capire, se e quando saranno effettivamente aboliti i contratti a progetto, il loro spazio sarà occupato in gran parte non da assunzioni (magari pur sempre a termine) ma da forme di lavoro ancora più precarie, prive di qualsiasi garanzia e tutela, e senza alcun limite al ribasso dei compensi.

Ci vediamo in piazza il 12 dicembre.

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