[DallaRete] Miliziano Is: «Così siamo entrati dalla Turchia»

27desk-isis-intervistaI mili­ziani di Isis che sono entrati mer­co­ledì notte a Kobane veni­vano dalla Tur­chia. La negli­genza con cui il governo turco con­trolla la sua fron­tiera è di per sè una scelta poli­tica che ha l’effetto di garan­tire uno spa­zio infor­male che con­cede allo Stato isla­mico di fare della Tur­chia una base ope­ra­tiva. Nei vil­laggi intorno a Tel Abyad ricon­qui­stati dai com­bat­tenti kurdi ai jiha­di­sti, i com­bat­tenti Ypg ci hanno mostrato tes­sere della Hamil­ton public library e tran­sa­zioni presso la Bank Asya a con­fer­mare che chi gon­fia le fila dello Stato isla­mico si muove libe­ra­mente in Turchia.

Yas­ser Melham Altuba, 31 anni, è un ex sol­dato dello Stato isla­mico. Si è con­se­gnato alle forze Ypg ad Hamis, nella pro­vin­cia di Der-Zor all’incirca tre mesi fa in vista della gra­zia che i Ypg avreb­bero con­cesso ai sol­dati locali che si fos­sero arresi. Yas­ser ci rac­conta di come, nella città di Tel Hamis, i mili­ziani di Isis hanno stretto un patto con il diret­tore dell’ospedale locale per la cura dei sol­dati feriti, e che «chi non poteva rice­vere assi­stenza a Tel Hamis, veniva por­tato in Turchia».

Abbiamo incon­trato Yas­ser a Qami­shli, città orien­tale della Rojava, con­nessa al can­tone di Kobane dopo la presa di Tel Abyad di dieci giorni fa. Era insieme al fra­tello Yam­mamy, 21 anni, e Nagi adb-Alhamit, 37. Tutti e tre erano sol­dati sem­plici nelle fila di Isis. I tre si sono arruo­lati con Isis per ragioni eco­no­mi­che: «un sol­dato sem­plice non spo­sato riceve 200 lire siriane (meno di un euro) a set­ti­mana; un sol­dato sem­plice spo­sato riceve 400 lire siriane (quasi due euro) a set­ti­mana più mac­china e qual­siasi cosa voglia», ci spiega Yammamy.

I foreign fighters ven­gono pagati invece in dol­lari. I com­bat­tenti stra­nieri che si arruo­lano nelle fila dello Stato isla­mico rico­prono posi­zioni di respon­sa­bi­lità sia nella strut­tura mili­tare sia nella strut­tura giurico-religiosa. Yas­ser ci rac­conta in par­ti­co­lare dell’armata del Califfo, chia­mata Abu Gen­del al-Quwadi, finan­ziata dagli Emiri degli Stati del Golfo. Era com­po­sta da 500 foreign fighters pro­ve­nienti da tutto il Medio oriente. «Gli stra­nieri uti­liz­za­vano l’artiglieria pesante, noi locali era­vamo armati solo di kala­sh­ni­kov e spesso era­vamo la prima fila negli assalti», rivela Nagi abd-Alhamit.

La giu­ri­spru­denza ripro­pone le cate­go­rie della reli­gio­sità rifor­mu­lan­done i con­te­nuti. Per esem­pio, «haram» non sono solo i pec­cati così indi­cati nel Corano e nella Sunna: «haram» è chia­mata ogni infla­zione del codice di leggi impo­ste dall’Isis. Rifiu­tarsi di andare a pre­gare in moschea è «haram». Nella piazza di Tel Abyad, per esem­pio, tre uomini sono stati con­dan­nati a morte e sgoz­zati solo per­ché si rifiu­ta­vano di pre­gare in moschea. «Per esem­pio pec­cato è stato anche il gesto di un padre di rifiu­tare la pro­po­sta di matri­mo­nio pre­sen­tata a sua figlia dal noto qadi tuni­sino, Mus­saf el-Tunis. E per que­sto è stato arre­stato», come ci rac­conta Yasser.

In un pic­colo vil­lag­gio di un cen­ti­naio di abi­tanti nella cam­pa­gna del Kur­di­stan siriano (Rojava), appena prima della trin­cea, rac­co­gliamo le prime testi­mo­nianze di arruo­la­mento for­zato dei gio­vani abi­tanti; gli spari sui muri sono i segni di un’esecuzione ser­vita a con­vin­cere i più reticenti.

Amune, una signora di circa 70 anni, ha sem­pre vis­suto qui. «Una volta arri­vato l’Isis non era più pos­si­bile fare nulla». Ci indica un forno rico­perto di fango. Lì le donne face­vano il pane e quando l’Isis era al potere anche que­sto era vie­tato insieme ad avere il posa­ce­nere den­tro casa, le siga­rette, la musica, la barba non curata secondo i canoni sta­bi­liti e i pan­ta­loni alti o lun­ghi fino al pol­pac­cio. «Non era­vamo liberi di vivere la tra­di­zione così come la con­ce­pi­vamo», valuta Haled, abi­tante dello stesso vil­lag­gio. «Qui gli uffi­ciali di Daesh veni­vano, con­trol­la­vano ed anda­vano». Riscuo­te­vano le tasse sul rac­colto. A volte par­te­ci­pa­vano alla pre­ghiera nella moschea e lì pren­de­vano parola dopo la let­tura dei testi gui­data dai due imam: uno nomi­nato dall’Isis in aggiunta all’imam del villaggio.

In altre parole, lì dove l’Isis ha impo­sto il suo con­trollo, non c’è stato nes­suno stra­vol­gi­mento nella strut­tura sociale. Gli espo­nenti di spicco del vil­lag­gio e della città rima­ne­vano tali, legit­ti­mati dal discorso reli­gioso. La reli­gione e la tra­di­zione non è la causa, piut­to­sto uno stru­mento, uti­liz­zato stru­men­tal­mente per legit­ti­mare una deter­mi­nata strut­tura di potere voluta dai jihadisti.

http://ilmanifesto.info/parla-un-combattente-is-ora-prigioniero-dei-kurdi/

Tag:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *