[DallaRete] Omicidio Cucchi, lo Stato si assolve

IMG_6749-e1414804578250Medici e guardie carcerarie, tutti assolti. Il processo d’appello peggiora la pessima sentenza di primo grado: nessuno nega il pestaggio ma non si sa chi è stato.

Le 15.53. A Piazzale Clodio c’è una piccola folla di imputati, vittime, legali, amici delle vittime e dei presunti carnefici, carabinieri, polizia e guardie penitenziarie, telecamere e personale del tribunale. Suona la campanella, si sente solo il fruscio delle toghe e i click degli otturatori delle telecamere che puntano sullo scranno.

Le 15.53. La Corte è tornata in aula, il presidente legge solenne e rapido il dispositivo: tutti assolti. Stefano Cucchi è stato ucciso e vilipeso di nuovo. Tanto era un drogato, un tossico di merda, come è stato ripetuto più volte in pubblico e in privato. E’ tipico nei processi di questo tipo che si tenti di ribaltare le posizioni di mettere le vittime sul banco degli imputati. Proprio come nei processi per stupro. E anche stavolta una dei difensori degli infermieri si rivolge ai giurati popolari per dire con enfasi da televenditrice che è la prima volta che difende delle «persone per bene», gli altri suoi clienti sono tutti come quello.. come… vorrebbe dire come Stefano Cucchi, forse l’ha detto. Tanto era un tossico di merda.

Le 15.53. La verità la sa solo Stefano Cucchi. Tutti assolti, e – siccome siamo garantisti può darsi che siano innocenti, tutti, alcuni, forse. Ma allora dite chi è stato, dite chi ha sbagliato a non seguire le piste giuste. Le agenzie battono “per insufficienza di prove” ma la formula assolutoria dubitativa per insufficienza di prove non è contemplata dal codice di procedura penale vigente: l’assoluzione è sempre considerata piena.

Si dovranno leggere le motivazioni ma a quest’ora, visto da qui, visto con gli occhi di Rita, Giovanni e Ilaria, si ha la sensazione fortissima che lo Stato s’è autoassolto dal delitto Cucchi.

Le carte dicono che fu pestato e che fu curato a cazzo, anzi peggio, ma nessuno di quei secondini, dottori, dottoroni e infermieri è colpevole. Tutti assolti. Nemmeno a dire che si ricomincia da capo. Nullità degli atti e tutto da rifare anche se dopo 5 anni e 9 giorni che prove vuoi trovare. Rimandare le carte alla Procura conosciuta in tutt’Europa come Il Porto delle Nebbie? Ma no, nemmeno quello. In teoria sarebbe possibile, lo verremo a sapere dalle motivazioni ma nessuno dei presenti ci scommetterebbe un ventino.

15.53. Lo Stato s’è autoassolto. Sono parole pesanti e a qualcuno potrebbero girare le palle, magari denunciare il cronista ma prima dovrebbe avere la compiacenza di spiegare perché non riusciamo a scrollarci di dosso la sensazione disperante dell’ingiustizia implacabile, incolmabile. Ma forse è questo l’effetto collaterale di verdetti del genere: che ciascuno non abbia l’ardire di sfidare l’ordine costituito nemmeno quando lui stesso ammette di essere così potente da dichiararsi impotente a costruire un’idagine decente. A Roma si cita spesso il Marchese del Grillo: «Io so’ io e voi nun sete un cazzo!».

Alessandro Gamberini, Fabio Anselmo e Alessandra Pisa, legali della famiglia Cucchi, spiegano che è colpa dell’impalcatura di un processo nato male, impalcatura fragilissima, perché contro i medici non si sarebbe dovuta inseguire un’improbabile ipotesi di abbandono ma di colpa medica. E la perizia che insisteva sulla morte per fame imprevedibile? Così campata in aria, viene detto, che avrebbe aperto un’autostrada difensiva. E così è stato. Dubbi che sono stati espressi già in sede di udienza preliminare, con quell’impianto accusatorio sarebbe stato un macello. Così è Stato. Nessuno nega che fu pestato e nemmeno che sia stato curato male. Indubitabile, secondo le parti civili, che senza quel pestaggio alla schiena, quasi come fosse lo schiaffo del soldato, non sarebbe arrivata la morte.

Le 15.53. Il fallimento della giustizia è il trionfo dello Stato. Leggeremo le motivazioni, in fondo al ripostiglio della speranza umana, potrebbe esserci un appiglio perché abbiano risposta le domande di verità e giustizia. Del giudice si dice un gran bene, che è un garantista, che ha condannato perfino un generale argentino. Siamo garantisti e ci rallegriamo se un innocente viene scagionato. Anche se ha una divisa. Ma esiste una garanzia perché non succeda che quando un uomo senza divisa incontra uno o più uomini con la divisa, l’uomo senza divisa può anche morire senza che ci sia un processo decente?

Le 15.53. Il tempo senbra essersi fermato, almeno per Rita e Giovanni che provano a restare composti. Forse per loro il tempo s’era già fermato a quel sabato mattina di 5 anni e 9 giorni prima quando vennero avvisati di rendersi disponibili per l’autopsia. Perché nemmeno in questo fu civile chi avrebbe dovuto avvisarli della morte di un figlio. La morte violenta di un figlio, la morte che si sarebbe potuta evitare di un figlio. La morte che nessuno ha voluto spiegare.

No, la giustizia non è uguale per tutti, non per quelli come Stefano Cucchi che già arrivò all’udienza di convalida con le carte sbagliate, risultava albanese, più vecchio di sei anni e senza fissa dimora, e nemmeno gli fecero trovare l’avvocato che lui aveva regolarmente nominato. Ilaria, la sorella, è una maschera di dolore. Srotola la gigantografia del corpo di suo fratello deformato da quello che gli capitò. Ma per il tipo di una nota televisione nazionale il tempo non s’è fermato alle 15.53, ha fretta di sbaraccare, diamine, c’è il ponte dei Morti, dei Santi, di Halloween. Così chiede a Ilaria cosa abbia provato. La stessa domanda che avrebbe rivolto al superstite di un incidente stradale intervistato sulla lettiga, cos’hai provato. E a te t’è piaciuto, a che pensi? A cosa cazzo vuoi che pensi una persona che da 5 anni e 9 giorni va di porta in porta in cerca di verità e giustizia?

Le 15.53. Claudia Budroni ha vissuto anche lei la stessa scena, un giudice che si china sul microfono, pronuncia l’assoluzione, mostra due file di denti e sparisce. Lei lo sa cosa significa quella morsa alla bocca dello stomaco che non ti fa respirare. E’ stata a tutte le udienze del processo Cucchi, quello di primo grado e quello di adesso. C’è sempre un po’ di gente a processi di questo tipo, familiari di altre vittime uccise da chi indossa una divisa, attivisti – come quelli di Acad – che si battono perché non possano accadere più storie del genere. Ci sono il padre di Stefano Gugliotta, il padre e il fratello di Ricky Magherini, Luigi Manconi e Valentina Calderone di A buon diritto. Da lontano, commentano con dolore anche Lucia Uva, Cira Antignano, il padre di Sandri e Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi. Il primo commento politico, sulle agenzie è quello di Paolo Ferrero, leader di Rifondazione il cui giornale, per primo, denunciò l’omicidio Cucchi e altre storie di malapolizia. Altri personaggi politici di destra e “sinistra” pronunceranno frasi più o meno di rito. Perfino Alemanno, perfino Casapound. Solo il Sap, il sindacato degli applausi agli assassini di Aldro, si dirà soddisfatto dalle assoluzioni.

Le 15.53. Nemmeno è servito il clamoroso autogol di uno degli imputati che ha voluto leggere una dichiarazione spontanea in cui contraddice la versione dei suoi colleghi e del medico che visitò Stefano Cucchi. Anche la guardia si lamenta. Si lamenta dell’agonia mediatica (a ogni latitudine le divise sono allergiche all’informazione indipendente, not embedded), si lamenta di essere stata abbandonata dallo Stato (e forse è vero) ma dice che Stefano camminava, che i segni che aveva in viso erano effetto di una patologia, altro che botte, lui ha 25 anni di servizio e di queste cose se ne intende. Ma i suoi colleghi hanno dichiarato che a quell’ora, dopo l’udienza di convalida, quel ragazzo di 31 anni non ce la faceva nemmeno a togliersi gli slip per l’ispezione corporale di rito.

Le 15.53. Io so che tu sai che io so. C’è stato un gioco di non detti e insinuazioni che ha accompagnato tutto il processo. Tutti ammettono l’inferno dei sotterranei di piazzale Clodio. Ma, tranne un ragazzo africano testimone, nessuno ha visto niente. Quell’inferno di grida e dolore è un rumore di fondo a cui sono assuefatti. Tutti negano che il “repartino” del Pertini sia l’inferno che ha inghiottito Cucchi ma è eclatante la differenza di trattamento riservata a chi ha rifiutato il cibo dopo la morte del trentunenne romano arrestato per droga. A quel detenuto fu concesso di vedere l’avvocato e a lui si dedicò perfino uno psicologo. Le guardie penitenziarie continuano a dire, tramite i loro legali, che le responsabilità del pestaggio vanno cercate altrove. E altrove può solo significare la Benemerita che, due ore dopo che la notizia era di dominio pubblico, venne scagionata dal ministro di allora La Russa in persona e, è stato fatto notare da molte angolazioni, quel cono d’ombra ha sempre accompagnato le indagini.

Le 15.53 sono ormai passate. Comincia la passerella di frasi di rito e anche il sindaco di Roma fa lo splendido: «La sentenza sulla morte di Stefano Cucchi mi lascia senza parole. Ho indagato io stesso come Presidente della Commissione d’Inchiesta sul Servizio Sanitario Nazionale sulle cause della sua morte e posso solo dire che la sentenza di oggi è dissonante dalle nostre conclusioni. Il mio pensiero va alla sua famiglia e a lui che è morto solo, fragile, disidratato e denutrito senza aver potuto nemmeno parlare con i suoi cari». Ma si scorda di dire che voltò le spalle alla famiglia Cucchi quando questa gli chiese di venire in tribunale, era il processo di primo grado, a spiegare quelle conclusioni.

Marino, una celebrità nel campo dei trapianti prestata alla politica, avrebbe dovuto spiegare all’Aula bunker di Rebibbia, il nesso tra le ossa rotte, le vertebre, di Stefano Cucchi e il suo seppellimento preventivo al “repartino” del Pertini. Scrive la commissione nel resoconto del 9 febbraio del 2010: «… noi fin dall’inizio abbiamo capito che, in relazione alla vicenda di Stefano Cucchi, stavamo indagando anche riguardo al complesso rapporto, in merito non solo al caso specifico ma anche più in generale, tra la sanità e il carcere, tra i codici, le categorie, i comportamenti dell’ambito del Ssn e quelli che sono propri della struttura penitenziaria, sia in senso proprio sia quando si tratta di una struttura protetta di tipo sanitario come quella del Pertini». Un rapporto che alla commissione parve «come qualcosa di irrisolto, nel senso che può determinare esiti negativi». Nel frattempo Marino è divenuto sindaco di Roma (all’epoca si cominciava a ventilare l’ipotesi e lui volle evitare un conflitto con un potere forte) e incasserà il bonus Cucchi, assieme a qualche esponente della sua maggioranza, dedicando una piazza a questo ragazzo che non voleva il suo nome su una targa ma andarsene a spasso con la sua cagnolina.

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