[DallaRete] I Kurdi in piazza: «Basta con i massacri»
Emrah e Erdal Karaman sono due fratelli. Sono nati nel Kurdistan turco e vivono in Italia da oltre 15 anni. Hanno 23 e 25 anni. Il più giovane studia mediazione linguistica, il maggiore lavora nell’attività di famiglia. Sono tra gli organizzatori della manifestazione che ieri pomeriggio si è svolta a Milano contro i crimini dell’Is in Iraq e Siria.
La comunità curda del capoluogo lombardo si è data appuntamento in Piazza del Duomo, per chiedere la fine del massacro della minoranza Yazidi e di tutte le altre– cristiana, assira, turcomanna– che sono sotto attacco da parte dei jihadisti. È stata un’iniziativa spontanea: «Siamo qua come cittadini», ha spiegato Emrah. «Sappiamo che è agosto e l’adesione sarebbe stata contenuta– ha proseguito– ma non potevamo più tacere». Con l’aiuto di un loro amico, Ismail Orde, 32 anni, hanno lanciato il presidio sui social network.
Alle istituzioni italiane chiedono un tempestivo intervento per fermare l’avanzata dell’auto proclamato Califfato Islamico. Alla società civile, ai gruppi politici, alle organizzazioni umanitarie, ai giornalisti, di continuare a sensibilizzare su quanto sta accadendo. I manifestanti– un centinaio– erano per la maggior parte kurdi di seconda generazione, arrivati in Italia ancora bambini e oggi perfettamente integrati con il tessuto della città. Si stima che tra Milano e hinterland siano oltre 3 mila, 6 mila in tutto il Nord Italia. C’era anche chi ha deciso di portare la propria solidarietà ed è sceso in piazza avvolto nella bandiera arcobaleno. Qualche turista curioso si è attardato a scattare una foto ricordo di un qualcosa che rompe la routine dell’estate milanese. Da Palazzo Marino è arrivato Paolo Limonta, il responsabile dell’ufficio relazioni del Comune.
Hanno attraversato il sagrato e si sono fermati davanti al Museo del Nocevento dove hanno srotolato una bandiera kurda e intonato cori in favore di Abdullah Ocalan, il leader del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) che sta scontando un ergastolo nelle carceri turche. «Senza Ocalan non c’è vita», grida una donna in abiti tradizionali con le mani alzate verso il cielo e le dita a formare una V. Durante il massacro di Sinjar, oltre 500 donne yazide– insieme alle cristiane, alle turcomanne e alle alawite– sono state violentate, fatte prigioniere e vendute come schiave al mercato.
Ayse è una donna che vive a Parma dal 2003. Ha preso il treno ed è venuta a Milano con le sue due figlie. «Ci tenevo ad esserci come kurda e come donna– ha detto fiera– in piazza oggi, domani e il giorno dopo ancora, dovrebbero esserci tutte le donne del mondo». Ieri le commissioni Esteri delle Camere hanno approvato la fornitura di armi ai peshmerga. Sul punto i manifestanti sono divisi: secondo alcuni– che preferiscono restare anonimi– è l’unica soluzione. Secondo altri, come Erdal, l’invio di ulteriore materiale bellico in un paese già così densamente popolato di armi non potrà che esacerbare il livello di violenza.
«Ma– aggiunge — so bene che la questione è più complessa di così». Crede che l’obiettivo debba essere quello di fermare l’Is, capire chi dà loro le armi e chi orchestra il massacro. «Quello che c’è in gioco– conclude — sono temi comuni a tutta l’umanità e particolarmente cari all’Occidente: la libertà, i diritti fondamentali. La democrazia e l’autodeterminazione dei popoli. Temi in cui inevitabilmente si inciampa se si parla di kurdi».
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