Dialoghi con Georges Corm
Riportiamo qui di seguito un’intervista a Beirut con Georges Corm, economista, storico ed intellettuale libanese, professore presso la Saint Joseph University. Profondo conoscitore della realtà mediorientale e delle sue dinamiche, lo intervistiamo spaziando dalle primavere arabe al balance-of-power in medio-oriente, analizzando quella che è la questione sociale ed economica del mondo arabo, e per una critica delle categorie epistemologiche occidentali sul medio oriente.
Intervista di Lorenzo Carrieri (Beirut, aprile 2014)
Tempo fa abbiamo visto l’esplodere delle primavere arabe: di quelle esperienze cosa sopravvive oggi? Ha ancora senso, oggi, parlare di primavere arabe dopo il colpo di stato militare in Egitto (e in questi giorni la vittoria di al-Sisi alle elezioni, segnate da un fortissimo astensionismo), la vittoria degli islamisti di Ennhada in Tunisia e il sempre crescente potere delle milizie islamiste in Libia?
Uno, nel breve termine, è tentato di essere pessimista guardando a cosa è successo. Ma non dobbiamo dimenticare che le primavere del 2011 sono un evento storico che può ancora produrre molte ondate di riflusso, una serie di tentativi rivoluzionari da parte delle classi sociali arabe: le rivolte del 2011 rappresentano un’impronta, un’ inizio, all’interno del mondo arabo. Se guardiamo ad ogni rivoluzione, la russa, la francese, anche la cinese, ognuna di queste ha avuto le sue tappe, lo stesso sta accadendo nel mondo arabo: la rivoluzione non può darsi in 3 giorni, è un processo di lunga durata!
Credo comunque che gli eventi del 2011 siano importantissimi: essi hanno contribuito a ricostituire ciò che io chiamo “la coscienza collettiva araba”, che è qualcosa di totalmente differente e antagonista rispetto al modo in cui i paesi arabi sono stati governati. Credo anche che questi eventi rimarranno nelle menti della gente, allo stesso modo in cui abbiamo visto ritornare in voga la figura di Gamal Abdel Nasser! Alla fine non possiamo avere un giudizio su cosa succederà in futuro, a questo punto ciò che su cui possiamo avere invece un giudizio più chiaro è ciò che è deragliato del processo rivoluzionario. I risultati di queste rivolte popolari sono state seriamente influenzate da qualcosa che non si riesce a identificare chiaramente, e che non è un elemento nuovo nella storia araba: l’interferenza straniera, che è stata estremamente intensa e profonda se guardiamo al caso siriano e libico. Questo è quasi incredibile.
Personalmente non mi sono affatto sorpreso che la stessa coalizione controrivoluzionaria di forze contro il cambiamento, nel mondo arabo e nell’Occidente, formatasi dall’Oman fino alla Mauritania, si sia coalizzata per far abortire questi movimenti di massa: ancora una volta abbiamo avuto, e abbiamo tuttora, l’alleanza tra i paesi mussulmani conservatori, i cui grandi sponsor sono l’Arabia Saudita e il Qatar, e i paesi occidentali. Abbiamo visto questa stessa alleanza al lavoro in Siria: non direttamente sul campo attraverso l’uso di un esercito occidentale, ma grazie all’uso di procuratori e combattenti stranieri, arrivati lì in nome della difesa dell’Islam. Dunque, personalmente non mi stupisce affatto che la stessa coalizione che si formò per contrastare Nasser e anche Muhammad Alì1, entrambi in Egitto, oggi si formi per ostacolare questi movimenti di massa: Il Medio Oriente è una regione strategica, contenente enormi riserve energetiche, ed è estremamente difficile, in assenza di un forte stato/potere arabo, prevenire queste interferenze esterne.
Sempre per quanto riguarda le primavere arabe, perché gli islamisti sono stati in grado di “appropriarsi” delle primavere, invece che le forze di sinistra?
Non parlerei di forze di sinistra, piuttosto di forze del cambiamento. C’è da dire subito una cosa: gli islamisti nelle piazze erano minoranza, e, a volte, non condividevano nemmeno la visione rivoluzionaria della maggior parte dei manifestanti, addirittura stavano in disparte. Ma quando si è arrivati al momento elettorale, loro rappresentavano la più grande forza sul campo, avendo una grande organizzazione e un capillare network di ONG e associazioni caritatevoli nelle aree rurali e povere delle grandi città: non bisogna infatti dimenticare che questi partiti/movimenti islamisti si erano stabiliti lì da 40-50 anni, e che potevano gestire grandissime quantità di petro-dollari. Le forze islamiste perciò erano molto meglio radicate, e subito mi resi conto che si apprestavano a vincere le elezioni. Al tempo stesso essi sono stati capaci, nel corso degli anni, di esercitare una qual specie di egemonia nei media mainstream, sia del Golfo (Al Jazeera è qatariota, Al Arabiya è saudita) che occidentali: gli islamisti si presentavano come vittime di longeve dittature sanguinarie e del panarabismo. C’è una specie di grande narrazione riguardo a ciò, e nessuna, al contrario, riguardante le migliaia di militanti laici e di sinistra che sono stati imprigionati e torturati.
Al tempo stesso nessun media parlava di ciò che accadeva, e continua ad accadere, nei paesi del Golfo, paesi retti da dittature familistiche, politico-religiose e sanguinarie, sotto la forma di monarchie, molto più crudeli che altre: questa narrazione ha dunque aiutato le forze islamiste.
In Egitto le forze del cambiamento presentarono un candidato, Sabahi Hamdine. Ma dato che ai seguaci del precedente regime di Mubarak venne permesso di presentare un loro candidato, Ahmed Chafic,ex primo ministro sotto lo stesso Mubarak, ciò facilitò l’elezione di Mohammed Morsi, il candidato della Fratellanza Mussulmana, che venne eletto con poche migliaia di voti di vantaggio sopra quelli ottenuti da Sabahi.
In Tunisia abbiamo visto il ritorno di Ennhada, ma al tempo stesso ci sono i sindacati, che sono una forza molto potente. Ma, quando si tratta di arrivare al momento elettorale, e quando ci sono partiti che possono godere del sostegno economico esterno, e di rapporti di forza a loro favore, la situazione è totalmente differente. La Fratellanza Mussulmana fu così in grado di costruire una propria benevola immagine, nonostante gli avvenimenti algerini dei primi anni ’902. La gente tende ancora a credere che gli islamisti siano vittime, che fu vergognoso metterli in prigione, e questa visione ha continuato a essere diffusa dalle grandi narrazioni mainstream: gli Islamisti furono martirizzati, perciò meritavano di essere eletti e governare, poiché, nella visione di questa grande narrazione islamista, tutti gli elementi secolari avevano fallito. Ma questa visione non ha retto quando è stata messa alla prova: abbiamo visto la rabbia popolare in Egitto, quando milioni di persone si sono riunite nelle piazze a chiedere le dimissioni di Morsi.
In Tunisia la situazione sembra essere migliore: è un paese più piccolo dell’Egitto, come detto i sindacati sono una forza contro-egemonica rispetto agli islamisti, ci sono movimenti femministi che si oppongo a Ennhada, e quando la violenza islamista è esplosa, con l’assassinio di personalità liberali, i tunisini sono stati in grado di reindirizzare la situazione sui giusti binari e ottenere sviluppi positivi, come la nuova costituzione.
Tornando all’Egitto, non so se la messa fuorilegge della Fratellanza stabilizzerà la situazione, mi auguro di si. È una situazione complessa e paradossale, perchè il colpo di stato militare che ha deposto Morsi è appoggiato dal più grande paese islamista della regione, l’Arabia Saudita. I sauditi sono stati sempre i più grandi sponsor di tutte le branche delle Fratellanze nel mondo arabo e mussulmano, e le hanno usate per assicurarsi l’influenza e mantenere le tensioni all’interno dei loro vicini arabi: ma oggi, nel caso dell’Egitto, qualcosa è cambiato: Morsi e il suo governo erano entrate in diretta competizione con la leadership saudita, e questa competizione si manifestava non solo nel mondo arabo ma nell’intero mondo mussulmano. E perciò andavano puniti. Sarà interessante vedere come la situazione si evolverà, anche alla luce dei comportamenti paradossali dei paesi del Golfo verso le varie Fratellanze.
Cosa mi dice dell’islamizzazione delle società, di cui ha molto parlato nei suoi lavori?
Ho trattato molto non soltanto della strumentalizzazione dell’Islam, ma delle religioni in generale: anche sull’uso politico del Giudaismo e del Cristianesimo durante l’ultimo periodo della Guerra Fredda.
L’uso strumentale dell’Islam politico è stata una chiara politica sostenuta dagli Stati Uniti d’America per bilanciare le forze comuniste nel mondo arabo: non dobbiamo infatti dimenticare che i comunisti era una forza molto potente nei paesi mussulmani. Pensiamo all’Iran, dove c’era il Tudeh, o al partito comunista iracheno, ma anche ai comunisti in Egitto, in Indonesia e in Sudan. Anche qui la grande narrazione egemonica non dice questo perché, per la maggioranza della gente, il comunismo non si “abbinerebbe” con l’Islam: ma questo è un punto di vista totalmente orientalistico.
Comunque gli Stati Uniti, presi dalla paura per la diffusione dell’ideale socialista lungo tutto il mondo arabo durante gli anni ’60 e ’70 dell’ultimo secolo, iniziarono una particolare politica, ispirata dal security advisor Zbingniew Brzezinski: stimolare i sentimenti, e i partiti religiosi, per controbilanciare l’estensione delle varie forme di ideologia comunista. Lo stesso lavoro che è stato poi portato avanti anche da Papa Giovanni Paolo II in Polonia! Non è sicuramente un fatto nuovo l’uso del fattore religioso per contrastare le idee socialiste e secolari: anche nel Giudaismo abbiamo visto lo stesso, con molti intellettuali e liberali, spinti da buone intenzioni, trasformatisi poi in conservatori.
Comunque, per quel che riguarda l’islamizzazione delle società e la repressione dei movimenti comunisti, dobbiamo guardare a quello che accadde in Sudan: qui c’era il più influente partito comunista del mondo mussulmano, e le forze islamiste di Nimeiry, alleato degli Stati Uniti, diedero un giro di vite contro di esso. Lo stesso accadde in Indonesia, con la repressione del regime di Suharto, che uccise più di 500mila persone. In Iran invece accadde ciò che io chiamo un “fraintendimento geopolitico”: Khomeini è stato aiutato a prendere il potere per prevenire che, prima di lui, lo prendesse il Tudeh, il partito comunista iraniano alleato agli islamo-marxisti di Mujhaidin Khalq e ai liberali di Mehdi Bazargan. Ma per l’Occidente Khomeini avrebbe dovuto essere un altro Fratello Mussulmano, davvero gli Stati Uniti non avrebbero mai pensato che avesse potuto trasformarsi in un capo di stato anti-imperialista e anti-americano: essi coccolarono Khomeini, lo fecero rifugiare a Parigi nello stesso momento in cui lo Shah era ancora in carica in Iran, senza dubbio per usarlo contro le forze secolari e nazionaliste.
Possiamo dunque dire che esiste una specie di mercato delle religioni, così come descrive bene la sociologia americana: la religione, in fin dei conti, è un gran business, persino qui in Libano!
Ma quello che voglio sottolineare qui è che l’uso della religione non significa, di per sé, un declino delle idee secolari, come il panarabismo: per esempio, se guardiamo a quello che è successo durante le primavere arabe, notiamo l’esplodere di una coscienza araba collettiva, di carattere secolare. E persino in questo caso i regimi politici hanno preferito bilanciare questa coscienza collettiva con l’uso dell’Islam politico, perché è sicuramente più facile avere a che fare con il panislamismo, che non mette in discussione niente delle strutture e dei rapporti di potere, piuttosto che con il panarabismo/forze del cambiamento!
Tornando alle primavere arabe, come mai le monarchie del golfo non le hanno avute, o le hanno vissute in maniera minore?
Per prima cosa le hanno vissute, eccome se le hanno vissute! Eccetto probabilmente il Kuwait e gli Emirati Arabi Uniti, abbiamo avuto rivolte in Oman, Bahrein e Arabia Saudita nel 2011: il problema è che non c’è stata copertura mediatica di questi avvenimenti, non c’era l’interesse a diffondere l’immagine di queste rivolte. Non dobbiamo infatti dimenticare che il Bahrein è stato invaso dall’esercito saudita, che ha aiutato la famiglia regnante degli Al-Khalifa a reprimere duramente la primavera di questo paese: ma, nonostante la repressione, queste dimostrazioni vanno avanti ancora oggi, giornalmente!
Persino in Arabia Saudita ci sono state rivolte e sollevazioni, soprattutto nelle provincie a est del regno, abitate per lo più da una popolazione di confessione sciita: qui la monarchia, per tenere sotto controllo la situazione, da una parte ha applicato una politica di aumento dei redditi, dando incentivi economici e facendo concessioni superficiali alla libertà di persona; dall’altra ha continuato nella sua dura politica di repressione.
Tuttavia dobbiamo tenere in considerazione che queste rivolte, Bahrein e Arabia Saudita, non sono collegabili al fatto che molti dei dimostranti erano sciiti, sebbene essi rappresentino la parte della popolazione privata ed esclusa dalla vita politica: essi sono stati invece supportati da numerosi manifestanti e liberali di confessione sunnita che desiderano il cambiamento dell’esistente.
La cosa strana è che gli Stati Uniti non hanno una politica estera per quel che riguarda gli avvenimenti nel mondo arabo durante il 2011: se fate caso ogni giorno c’era una dichiarazione di qualche rappresentante americano che contraddiceva completamente quella di un altro nel giorno precedente! Comunque credo che gli States siano guidati, nel loro approccio alle primavere arabe, dal pragmatismo: ufficialmente sostengono le rivolte e le richieste di democratizzazione, ma, in maniera ufficiosa, in alcuni casi sono a favore del mantenimento dello status quo, come in Bahrein, dove hanno un’importantissima base navale3, e in Arabia Saudita, che è il loro alleato chiave nella regione.
Parlando della questione sociale, crede ancora che il grande problema dei paesi arabi sia l’economia di rendita? Il fattore economico quanto serve a spiegare la solidità dei regimi e la debolezza del capitale umano (movimenti, società civili,…)?
Per prima cosa dobbiamo affermare che l’economia di rendita può solo ed esclusivamente avvenire in un regime autoritario: per consolidare l’economia rentier c’è dunque bisogno di un regime autoritario. Tutti questi discorsi sulla promozione della democrazia nel mondo arabo, senza affrontare il problema dell’economia di rendita non hanno senso, perché non c’è attaccamento alla realtà, non esiste collegamento ai rapporti socio-economici sul campo! E io sono scioccato da ciò: pochissimi intellettuali tengono in considerazione le cause socio-economiche delle rivolte arabe, e quasi nessuna forza politica ha sviluppato un contro-discorso economico contro quello egemonico, che poi è quello dell’economia rentier!
Bisogna analizzare infatti la struttura demografica della popolazione scesa in piazza: sicuramente c’era una parte di borghesia importante, ed essa era polarizzata su questioni di libertà politica e libere elezioni. Ma la stragrande maggioranza, il 70% a mio modo di vedere, era gente povera, proletariato e sottoproletariato, la cui lotta era molto chiara: essi chiedevano pane, dignità, lavoro, così come la fine della corruzione e dell’ingiustificata concentrazione della ricchezza in poche mani (redistribuzione della ricchezza). E questa lotta non è mai stata analizzata dal punto di vista economico, nessuno ha parlato dei modelli di sviluppo economico che i paesi del mondo arabo stanno seguendo, che sono, fondamentalmente, politiche pubbliche di stampo rentieristico, che consolidano lo sfruttamento delle rendite da parte di pochi a danno di molti. La mia spiegazione è che le giovani generazioni arabe sono state cresciute in una struttura mentale neo-liberal: hanno studiato ad Harvard, alla Sorbone, alla Soas, hanno dunque assorbito completamente il modello economico neo-liberista! E ciò è totalmente differente dalle esperienze di quelli della mia generazione: noi studiavamo l’economia politica, il suo funzionamento, il welfare state, la distribuzione della ricchezza come giustizia sociale! Oggi le nuove generazioni non possono concepire qualcosa di differente dal neoliberismo, e questo è un dramma! C’è un pensiero unico economico! Nessuno parla di come migliorare la giustizia sociale, la competitività, di come acquisire scienza&tecnica, di come fermare la fuga dei cervelli dal mondo arabo: queste sono domande che nessuno sembra porsi!
Comunque, per tornare alla domanda: sì, possiamo certamente spiegare la mancanza di democrazia e di spazi di libertà attraverso il fattore economico. Quando c’è una struttura economica totalmente incapsulata in tali relazioni di dipendenza dalle fondi di rendita controllate dagli stati neo-patrimonialisti, sicuramente bisognerebbe abbattere le strutture autoritarie per assicurare il miglioramento delle performance economiche in termini di lavoro e giustizia sociale. Guardiamo al caso saudita: regime autoritario, retto da un antica famiglia dirigente, cattivo stato dei diritti umani, per non parlare dei diritti delle donne. Da una parte c’è la famiglia saudita, insensibile alle richieste di democratizzazione, che, per mettere in sicurezza il proprio regno, supporta tutte le politiche americane nella regione, dall’altra parte ci sono gli Stati Uniti, che, per assicurarsi il flusso petrolifero a prezzi contenuti, sostengono un autoritario regime repressivo come quello dei Saud. Come ben sappiamo la storia della democrazia è storia di distruzione dei modi di produzione feudali e delle economie di rendita, come con la Rivoluzione Francese e l’industrializzazione che avvennero in Europa.
È veramente difficile oggi [liberarsi di questi modelli economici] quando hai una dipendenza da un potere esterno e interferenze straniere: se non si considerano tutti gli interessi in gioco (come ad es. la base navale US in Bahrein, come l’accesso ai flussi petroliferi,…) si possono scrivere pagine e pagine su diritti umani, e riempirsi la bocca con parole come democratizzazione e diritti umani, ma non si coglie quella che sta realmente succedendo!
Dobbiamo, senza ombra di dubbio, mettere la questione economica [del mondo arabo] al primo posto, ma, sfortunatamente, tutti i lavori accademici arabi sono polarizzati oggi dal fattore Islam: io appartengo ad una generazione che non considera l’Islam né il fattore centrale dei paesi arabi, né il suo problema preponderante. Oggi ogni cosa è cambiata, e l’appiattimento sull’Islam è strettamente funzionale al pensiero unico di cui abbiamo parlato poc’anzi.
I paesi arabi [per uscire dall’impasse dell’economia rentier] devono fare come Taiwan e i paesi del Sud-Est asiatico: questi erano paesi poveri, rurali, con un PIL più basso dell’Egitto dei primi anni ’60, guardiamo invece dove sono adesso. Essi hanno acquisito scienza&tecnica, hanno diversificato le loro economie. Qui, nel mondo arabo, manchiamo di questi fattori, siamo ancora totalmente economie rentier: siamo paesi superficialmente industrializzati, dove l’industria petrolifera è una specie di enclave senza connessioni con altri settori, dove c’è un altissima dipendenza dalla tecnologia esterna, siamo paesi nei quali la mentalità da rentier ha inibito la nascita di una mentalità imprenditoriale del rischio e della competitività, dove c’è un altissimo tasso di fuga di cervelli, paesi nei quali esistono pochissime opportunità per lavoratori qualificati, che preferiscono emigrare.
Ci sono stati senza dubbio dei tentativi di industrializzazione nel mondo arabo: guardiamo a Muhammad Alì in Egitto nel XIX sec e Nasser sempre in Egitto nel XX, o Boumedienne in Algeria e Saddam in Iraq, solo per guardare agli ultimi decenni. Sotto questi leader i loro paesi raggiunsero un livello rapido e spettacolare di sviluppo, attraverso l’integrazione delle donne nella vita pubblica ed economica, una scolarizzazione di massa, una diversificazione dell’economia, una profonda industrializzazione, con la creazione di metodi di sicurezza sociali per lavoratori e gente povera. Molti risultati sono stati raggiunti, ma ognuno di questi ha fallito per una serie di fattori, esterni ed interni: Mohammad Alì perché provò a deporre il Sultano Ottomano, Nasser per la sua sconfitta nel 1967 contro Israele e Saddam perché entrò in guerra contro l’Iran per accontentare l’Occidente e le petro-monarchie.
Parlando del settarismo, stiamo assistendo oggi ad un climax delle divisioni sunniti-sciiti, dovuti ad una serie di fattori: l’intervento americano in Iraq nel 2003, la particolare storia di costruzione del sistema di stati e la lotta per l’egemonia regionale tra Iran e Arabia Saudita. Sono dunque queste divisioni settarie, alimentate dal conflitto in Siria, il risultato di una strategia preventiva o in qualche modo sono qualcosa di essenziale nella storia della regione?
C’è una descrizione molto ben fatta sull’uso politico, da parte americana e saudita, di questo conflitto in un articolo di S. Hersh (sul numero di marzo 2007 del New Yorker, dal titolo “The Redirection”4): gli Stati Uniti, dopo aver visto il disastro dell’occupazione dell’Iraq (che ebbe come unico risultato di aumentare l’influenza iraniana nel paese e, in Medio Oriente, dell’arco sciita), si sono decisi ad un confronto più serrato con l’Iran e, con lo scopo di indebolire il regime degli Ayatollah, hanno alimentato un esteso conflitto di carattere settario tra mussulmani Sunniti e Sciiti. Cioè, tutto quello che noi vediamo oggi, è il risultato dell’uso politico del settarismo religioso: se l’Iran fosse pro-US non ci sarebbe il settarismo! Comunque ecco perché oggi Hezbollah è demonizzato: non è questione di religione, per niente, anche se gli sciiti sono stati marginalizzati in molti dei paesi arabi, non è la religione il problema. Il problema principale è la politicizzazione delle sette, e il loro uso per contrapporsi e provocare scontri.
Argomento Siria: si sta vivendo la stessa situazione delle primavere arabe che abbiamo visto in Egitto e altri paesi? Qual è il ruolo dei poteri esterni?
No, secondo me non è la stessa situazione. Non c’è stata una sollevazione generale in Siria, affatto. Se si guarda alla mappa delle proteste in Siria, esse sono scoppiate a ridosso dei confini, in villaggi e aree rurali povere, dove c’era scontentezza poiché le linee di politica economica del regime, per seguire i dettami del Fondo Monetario e degli Stati Uniti, e per aprirsi gradualmente ad un’economia di mercato, avevano avuto una svolta neo-liberista. Ciò aveva inciso sui sussidi agricoli, che erano stati drasticamente tagliati, ciò nonostante il più grande successo del regime era stato raggiunto in termini di autosufficienza nella produzione di cibo: le aree rurali erano così tra i pilastri del regime. In aggiunta, anni di siccità danneggiarono gravemente il mondo rurale e contadino. Quando scoppiarono le proteste, ai confini con Turchia, Giordania e Libano, divenne chiaro come la politica occidentale e dei suoi alleati arabi fosse di usare le proteste per sbarazzarsi di Assad e deporlo: fu un calcolo sbagliato perchè ciò non teneva in considerazione la base sociale del regime di Assad, la sua forza e le sue debolezze, così come la distribuzione del suo potere. Tutto ciò avvenne dopo che gli States e l’Occidente avevano cercato di cambiare il comportamento del regime nella geopolitica regionale: Assad avrebbe dovuto isolare l’Iran, smetterla di finanziare Hezbollah, e tutto sarebbe stato ok per il suo regime. Ma Assad continuò sulla stessa via precedente, ecco perché gli States e l’Occidente hanno deciso di sbarazzarsi di lui, prima attraverso il Libano, accusandolo dell’assassinio di Hariri, e ora attraverso la guerra in Siria.
Lo ribadisco: la situazione della Siria è totalmente differente dalle sollevazioni popolari degli altri paesi arabi. Il popolo siriano è cauto guardando a cosa è successo all’Iraq dopo il 2003, e anche a ciò che ha vissuto il Libano dal 1975 agli anni ’90: non vuole una rivoluzione violenta, forse se non ci fossero eserciti e mercenari stranieri nel suo territorio avremmo potuto vedere un’estensione di questa rivolta parziale e contadina, ma quando il popolo siriano ha visto combattenti islamisti stranieri, oltre che le loro ideologie autoritarie e anti-democratiche, beh, ciò ha consolidato le basi sociali del regime, dato che la gente si è impaurita riguardo a ciò che sarebbe potuto accadere nel caso in cui il regime si fosse sbriciolato. Altra cosa: dobbiamo sicuramente sottolineare come Assad abbia fatto alcune riforme e concessioni all’opposizione interna, non sicuramente a quella “straniera”: alcuni prigionieri politici sono stati liberati dalle carceri e alcuni addirittura cooptati all’interno del governo.
Come ho già ricordato, i poteri esterni sono profondamente coinvolti: su tutti, sauditi e turchi. Essi non hanno mai nascosto i loro propositi, e continuano a dichiarare “vogliamo Bachar fuori”, in maniera chiara e giornaliera.
Per finire, penso comunque che la situazione siriana faccia parte di un grande disegno per indebolire la posizione dell’Iran, che è in diretta competizione con l’Arabia Saudita in Medio Oriente, e inoltre per indebolire lo stesso Hezbollah, che è diventato un importante attore regionale.
Sul coinvolgimento di Hezbollah in Siria: crede che la decisione del partito di dio di partecipare al conflitto siriano sia un “tradimento” del suo ruolo di resistenza araba? Cosa pensa delle difficoltà che stanno incontrando in Libano per spiegare il loro ruolo in Siria?
Non credo che stiano incontrando difficoltà. Quelli che non vogliono capire il loro comportamento logico sono semplicemente persone che vogliono solo demonizzare Hezbollah.
In quanto al conflitto siriano, dobbiamo ricordare che i primi libanesi che sono andati a combattere sono stati quelli anti-regime: molti estremisti sunniti dalla città a nord del Libano di Tripoli, vicino al confine siriano, che è poi diventata una grande base di reclutamento per l’opposizione siriana, sono intervenuti in Siria. In realtà Hezbollah è intervenuta abbastanza dopo, nell’estate del 2013. Oltre a ciò, se un governo islamista fosse emerso in Siria, Hezbollah avrebbe avuto le sue linee di rifornimento tagliate, e ciò avrebbe inibito la sua capacità di risposta ad un eventuale tentativo israeliano di attacco, come fu (in quello fallito) nel 2006. Ecco perché é molto chiaro come Hezbollah stia difendendo il suo ruolo di forza di Resistenza, è una conseguenza logica: sono gli unici in grado di tenere a freno Israele, e, per fare ciò, necessitano le linee di rifornimento siriane; al tempo stesso dobbiamo sottolineare che sono intervenuti in difesa dei confini libanesi dall’infiltrazione dei Jihadisti provenienti dalla stessa Siria.
E come ho già ricordato, la prevenzione della nascita di un governo islamista in Siria è a tutto interesse del Libano (e non solo di Hezbollah ), che ne risulterebbe completamente destabilizzato.
Penso dunque che Hezbollah stia senza dubbio comportandosi come forza di Resistenza, e stia, allo stesso tempo, difendendo il Libano e i suoi confini con la Siria dai combattenti islamisti, che hanno incominciato a diffondere il terrore in Libano (ossia a mandare macchine cariche di esplosivo in aree densamente popolate e contro l’ambasciata iraniana).
Qual è l’impatto della crisi siriana in Libano, e la situazione odierna nel paese dei cedri?
Come ho sempre sottolineato, il Libano è uno stato-cuscinetto per conflitti esterni, ed è sempre stato così, fin da quando è stato concepito. Le cose sono cambiate solamente durante la carica di Èmile Lahoud, quando egli fu Presidente della Repubblica (1998-2007). Per la prima volta l’esercito fu rinforzato e ricevette chiari ordini di supportare e facilitare le operazioni della Resistenza contro l’occupazione israeliana del Sud del Libano, e, per la prima volta, l’esercito libanese ottenne una chiara e precisa dottrina militare. E tutto ciò permise di ottenere il ritiro israeliano dal Sud nel 2000, senza che vi fossero contropartite: fu un grandissimo risultato, perché il Libano riconquistò la sua sovranità su dei territori illegalmente occupati. Oltretutto Mr Lahoud tenne sotto controllo le azioni di Rafiq Hariri, che era uno stretto alleato dell’Occidente e dell’Arabia Saudita, e che stava provando a portare il Libano su posizioni ciecamente filo-occidentali nella regione.
Ecco perché Lahoud fu ostacolato dall’Occidente, specialmente dalla Francia, le cui relazioni tra il presidente Chirac e Hariri erano abbastanza “eccentriche”. Vorrei qui ricordare che Chirac, in una delle sue ultime visite in Libano nel 2002, dichiarò che l’esercito siriano si sarebbe dovuto ritirare dal Libano solamente in occasione della risoluzione del conflitto israelo-palestinese, poi nel 2004 cambiò idea e, insieme con gli States, pilotò una risoluzione, la 1559 del Consiglio di Sicurezza del settembre 2004, che chiedeva il ritiro siriano immediato!
Continuando a rispondere alla domanda, credo personalmente che, finché avremo un sistemo settario all’interno del Libano, rimarremo una specie di stato-cuscinetto, e, fintanto che ci sarà una potente oligarchia finanziaria e politica, che domina il paese, non potremo avere un sistema di tassazione funzionante ed egualitario che finanzi un esercito potente: ed ecco perché credo che avere Hezbollah, che non costa nulla allo stato, sia il miglior contrappeso possibile ad Israele. I libanesi che non vogliono vedere quest’equazione sono ciechi!
Ci sono poi molti cristiani oggi che sostengono Hezbollah. Ora c’è la tendenza ad analizzare ogni cosa libanese in termini settari, ma non funziona così: l‘Hezbollah è oggi protetto da un’implicita alleanza di popolazione secolare, cristiana, sunnita, drusa e sciita, di ogni estrazione sociale. Lasciatemelo dire: il problema del Libano non é Hezbollah, il vero problema è tutta la classe dirigente che crede, in tipico stile saudita, che lo stato sia qualcosa del loro patrimonio. Queste persone considerano la ricchezza dello stato come se fosse quella del loro portafoglio! E questo modo di fare politica è stato ben rappresentato in Libano da Mr Hariri: dato che egli ha vissuto in Arabia Saudita per anni, egli si è comportato come un monarca saudita che credeva che le istituzioni statali fossero suo patrimonio personale e dei suoi alleati nel sistema settario e nelle oligarchie finanziarie. E, sfortunatamente, questo modo-di-fare-politica tende a diventare senso comune nelle classi dirigenti odierne.
Per quanto riguarda ancora il sistema comunitario, esso permette alla corruzione di farsi sistema: perché non si può considerare affidabile un leader politico che si presenta come difensore dell’onore dei cristiani, dei sunniti etc etc. Questa è solo l’apparenza per nascondere il fatto che questi leaders stanno derubando il paese da sempre!
Cosa pensa della costituzione del tribunale speciale per il Libano?
È semplicemente una presa in giro, ed esso non serve la nobile causa della giustizia internazionale. Fino ad ora i 4 generali libanesi e i 15 civili messi in carcere, sotto falsa testimonianza per 4 anni, non sono stati ricompensati ne hanno ricevuto delle scuse: questo sembra incredibile! E invece coloro che hanno dato falsa testimonianza sono ancora protetti dall’Occidente. Fondamentalmente si tratta di un atto contro la sovranità libanese, incostituzionale: la richiesta del Presidente della Repubblica, che dovrebbe, per costituzione, condurre i negoziati del trattato internazionale ed emendare una bozza di trattato che istituisca il tribunale, non è stata presa in considerazione dall’ONU, mentre lo stesso trattato non è stato approvato dal Parlamento. Si tratta di uno strumento usato de-facto per influenzare gli affari interni libanesi, solo per creare pressioni alla Siria prima, e oggi usato contro Hezbollah, che sta venendo accusato di aver portato a termine l’assassinio di Hariri.
Ciò che è ancora più scandaloso é che il Libano paghi ogni anno, per il Tribunale, l’equivalente dell’intero budget a disposizione del Ministro della Giustizia!
Le corti penali internazionali sono create per giudicare i responsabili di crimini di guerra, genocidi, assassinii di massa, pulizia etnica e trasferimento forzato di popolazioni: è dunque inappropriato creare una tale corte per giudicare un assassinio politico (compiuto in un paese sovrano)!
Pochi mesi dopo che Hariri è stato ucciso, ci fu l’assassinio dell’ex primo ministro Benazir Bhutto in Pakistan, e nessuno richiese l’istituzione di una speciale corte internazionale per identificare e giudicare i responsabili…
Sulla questione palestinese, qual è l’attuale e più probabile scenario? Lei ha scritto: “agli arabi è stato chiesto di capire e accettare la dinamica israeliana che ha traumatizzato le loro vite, senza che gli arabi siano mai stati responsabili della Shoah”, cosa intende con ciò?
Noi, come arabi, non siamo implicati nella Shoah. Non ci riguarda. Tutti gli ebrei che vivevano nel mondo arabo furono trattati alla stregua degli altri cittadini, salvaguardati: la Shoah è un problema europeo, come ho analizzato nei miei libri. C’è stato un spostamento dell’ostilità degli ebrei dai tedeschi e dagli europei, che perpetrarono il genocidio durante la seconda guerra mondiale, verso gli arabi in Palestina: ma noi arabi non abbiamo niente a che vedere con lo sterminio di massa degli Ebrei d’Europa, non possiamo in alcun modo essere considerati responsabili per questo! E inoltre non possiamo provare quei sentimenti di colpa che gli europei giustamente provano. È molto semplice: dato che i popoli arabi e la loro cultura non hanno fatto parte dell’antisemitismo europeo, culminato col genocidio di massa, non ci si può chiedere di sviluppare una sorta di sensibilità artificiale verso l’Olocausto per comprendere le preoccupazioni in materia di sicurezza di Israele. Noi siamo naturalmente portati a empatizzare con la sofferenza che stanno vivendo i palestinesi fin dalla creazione dello stato d’Israele, e con le sofferenze che abbiamo passato in Libano per mano israeliana, con le sue crudeli operazioni militari e l’occupazione della nostra terra, prima dal 1978 al 2000, e poi di nuovo nel 2006.
Parlando del problema israelo-palestinese, credo che l’unica soluzione possibile sia la “one-state solution”: ciò potrebbe impiegare 20,30,40 anni, non lo so in realtà. Quello che so per certo è che palestinesi e israeliani possono vivere insieme, basta guardare alle varie inziative comuni, come l’Orchestra Israelo-Palestinese: il problema è la leadership israeliana e il supporto attivo all’occupazione e alla politica degli insediamenti che Israele riceve dai paesi Occidentali.
Ad ogni modo (giungere ad una soluzione definitiva) significherebbe mettere in discussione l’idea sionista, ma oggi abbiamo molti sionisti che non sono ebrei, e che sono degnamente rappresentati nelle lobbies e nei governi, e un sacco di ebrei anti-sionisti, che sono in realtà ridotti al silenzio e messi in secondo piano! Questa è una situazione veramente paradossale!
Un’ultima domanda: lei ha studiato le categorie di pensiero attraverso le quali il medio oriente è analizzato e il modo in cui è colto dallo sguardo occidentale. Tutto sembra appiattito sull’elemento religioso (ed etnico). Questo come può aver contribuito alla frammentazione/debolezza del mondo arabo, e come può aver aiutato a riprodurre un vuoto di potere?
Bene, il grande cambiamento avvenne quando l’Unione Sovietica collassò: nel passato c’erano un sacco di arabi che si recavano a studiare nel paese sovietico e nell’Europa Centrale, che era sotto la dominazione di Mosca. Tutti questi arabi ritornavano nei propri paesi con un background socialista, animati da buone intenzioni, anti-imperialisti e laici. Oggi, negli ultimi 30 anni, abbiamo persone che vanno a ricevere un’educazione solamente in Occidente: quando questi fanno ritorno nei paesi d’origine sono completamente imbevuti di mentalità neo-liberal, e anche le loro categorie di pensiero sono modellate secondo le agende occidentali e/o dell’ONU! Il vuoto di potere consiste nel fatto che un’agenda araba comune ancora non esiste o, in molti casi, è totalmente appiattito su quelli occidentali!
Così ci sono un sacco di ottimi lavori che non seguono il trend principale, che non considerano l’Islam politico come il fattore principale del mondo arabo: e nessuno, nei media e nel mondo accademico, li prende in considerazione! Personalmente sono molto contento nel vedere persone che leggono i miei libri e articoli, che sono totalmente al di fuori dal mainstream, benché gli stessi miei scritti siano ispirati dalla mia fede nei valori umanistici!
Ecco perché evito di parlare con rappresentanti europei o americani, perché essi sentono solamente quello che voglio sentirsi dire: ma, al contrario, se hai un diverso punto di vista, essi tendono a ignorarti. Questa è la tipica forma-mentis della conoscenza occidentale: questo è il sistema culturale, che riproduce un tipo stereotipato di conoscenza sul Medio Oriente, quella che l’ultimo Edward Said criticò radicalmente nella sua opera famosissima “Orientalismo”.
Oggi possiamo proprio cambiare questa specie di Grande narrazione, attraverso le conquiste delle primavere arabe: queste ultime possono essere anche considerate l’inizio di una contro-narrazione collettiva! Che non è finita, che è ancora in corso: sono stato in Egitto poco tempo fa e la gente mi diceva che stava aspettando per una terza ondata di rivoluzione!
Per finire, penso che l’idea della giustizia sociale possa unire le classi più basse e la classe-media, religiosi e laici, gente povera e lavoratori, così come la borghesia illuminata: dobbiamo dare sostanza ai discorsi rivoluzionari, per ricomporre e riunire insieme nuovamente le forze del cambiamento!
Note:
1 Muhammad Alì Pascià (1769-1849) è considerato il padre fondatore dell’Egitto moderno. Mise fine alla dominazione mamelucca, modernizzò l’esercito, portò avanti politiche di industrializzazione e di rinnovamento nell’amministrazione dello stato, creò un sistema di istruzione generalista, slegò sempre più il paese dall’Impero Ottomano.
2 A seguito della vittoria nelle elezioni del Fronte Islamico di Salvezza (FIS), l’esercito prese il potere con un colpo di stato nel gennaio 1992. A seguito della repressione che seguì il golpe, (alcuni) islamisti formarono gruppi armati dediti all’assassinio di intellettuali laici e liberali, e a personalità di sinistra: molti di questi gruppi erano formati da combattenti che avevano partecipato alla guerra contro l’invasione sovietica in Afghanistan nel 1979, ed erano portatori di ideologie salafite.
3 Il Bahrein ospita la Naval Support Activity della Marina Militare americana, dove è di stanza il Comando Centrale delle Forze Navali e la Quinta Flotta. Quest’ultima è responsabile per le operazioni nel Golfo Persico, Mar Rosso, Mar Arabico e una parte di Oceano Indiano.