Buscetta, “Il traditore”
“Buscetta!”. Quante volte, a noi che frequentiamo i movimenti e, di conseguenza (purtroppo), le aule dei tribunali, è capitato di scherzare in modo pesante con le nostre compagne e compagni citando quel nome…
Sì, perché la definizione “Buscetta”, nell’Italia degli ultimi decenni, è diventata l’appellativo (spesso e volentieri dispregiativo) per additare il traditore. Un po’ come Giuda e Bruto che, non a caso, Dante precipita nell’Inferno più profondo, proprio in due delle tre bocche di Lucifero.
E proprio di Buscetta e della sua parabola esistenziale parla l’ultimo film di Marco Bellocchio “Il traditore”. Ancora nei cinema e fresco del successo al Festival del cinema di Cannes.
Ammettiamo che, da militanti politici, ci siamo accostati alla pellicola con una certa cautela.
Sia perché ricordiamo bene che il pentitismo e la conseguente legislazione premiale, ancor prima che contro le grandi organizzazioni criminali, sono stati utilizzati per abbattere i movimenti rivoluzionari degli anni ’70 portando in carcere migliaia di persone (nel 1983 l’Italia aveva il più alto numero di prigionieri politici d’Europa, seconda solo alla Turchia dei generali) e trasformando una vicenda sociale in una vicenda unicamente criminale e giudiziaria.
Sia perché il tema dell’infame ovvero chi, facendo parte di un sodalizio criminale (criminale in senso lato ovviamente…ovvero che va contro le leggi correnti, per i motivi più diversi), per tornaconto personale tradisce i propri sodali consegnandoli a Forze dell’Ordine e magistratura è un terreno da sempre minato.
E infine perché, negli ultimi anni siamo stati letteralmente travolti da tantissimi film (e serie) sulla criminalità in giro per lo Stivale: da “Il Camorrista” di Tornatore al “Capo di capi”, da “Romanzo Criminale” di Placido all’omonima fortunatissima serie, da “Gli angeli del male” su Vallanzasca al “Gomorra” di Garrone passando per “Il Divo” di Sorrentino (entrambi con un Toni Servillo mattatore) e finendo all’ormai universalmente nota serie Sky tratta dall’omonimo libro di Saviano, a Suburra (film e serie) e al recentissimo “Lo spietato” che narra la scalata dei clan calabresi a Milano. Una vera e propria bulimia che conferma come, in Italia, lo spirito criminale oltre a “essere sexy” e fare cassetta porti moltissimi ad autoidentificarsi negli eroi negativi delle varie storie narrate. Il tutto in uno sconvolgente vuoto di politica intesa come idealità e prospettive di cambiamento.
Dobbiamo riconoscere che il film ci è piaciuto perché, ovviamente, non parla solo di tradimento, ma anche di un pezzo di storia italiana e del carattere profondo del nostro popolo con un Favino “one man show” che si carica sulle spalle, anche fisicamente, le più di due ore di pellicola.
E facciamo un salto proprio alle vicende di storia patria che fanno da filo conduttore alla narrazione.
Il cuore del film si svolge negli anni ’80. Si parte dalla seconda guerra di mafia scatenata dai Corleonesi e dai loro alleati per scalzare dal potere all’interno di Cosa Nostra le famiglie palermitane (un vero e proprio assalto della provincia alla città con la tradizionale sottovalutazione, da parte dei metropolitani, dell’astuzia contadina di Riina e soci).
Una guerra di mafia che fece centinaia e centinaia di morti in pochissimi anni e che ci fa sorridere di fronte a tutti quelli che definiscono l’Italia di oggi un Paese violento non ricordandosi come eravamo…
Una guerra fatta di mille intrighi come si fosse nell’Impero di Bisanzio e che rappresentano perfettamente l’italico carattere delle mille giravolte e del salto al volo sul carro del vincitore.
Il vero cuore del film è la rappresentazione fedelissima e brillante del maxiprocesso di Palermo durato due anni (1986-1987) e nato proprio dalle dichiarazioni di Tommaso Buscetta.
Un vero e proprio mostro giuridico con 475 imputati iniziali che traeva esempio da altri celebri maxiprocessi già celebrati negli anni precedenti contro le organizzazioni della lotta armata di sinistra come Brigate Rosse e Prima Linea e contro i gruppi di movimento, primo tra tutti Autonomia. Un mostro giuridico che, dobbiamo dirlo, nonostante la scarsa, anzi nulla simpatia che possiamo nutrire per gli imputati di Palermo, rese estremamente difficile il rispetto dei diritti della difesa facendo diventare prassi l’uso dei collaboratori di giustizia e della legislazione premiale e trasformando l’emergenza in norma ordinaria.
Il processo si concluse con 19 ergastoli e più di 2.000 anni di reclusione in totale e venne confermato in Cassazione nel 1992 scatenando l’ira della mafia contro i referenti politici democristiani che avevano “tradito” i patti e dando il via alla guerra voluta da Riina contro lo Stato.
E qui il film procede con l’attentatuni di Capaci in cui Falcone (un ottimo Fausto Russo Alesi molto bravo a mostrare il magistrato palermitano nelle sue durezze, ma anche nei suoi sprazzi di ironia ed empatia), sua moglie e tre agenti della scorte persero la vita, con la scena disturbante dei mafiosi che festeggiano la notizia della morte del giudice brindando, sputando contro la televisione e inveendo in modo feroce contro il morto, il tutto mentre il “Capo dei capi” festeggia da solo e in silenzio bevendo un solitario bicchiere di champagne non riuscendo a capire che la scelta dello scontro frontale con lo Stato porterà a conseguenze nefaste per Cosa Nostra.
La pellicola poi procede perdendo un po’ di forza narrativa e tensione con il processo contro Andreotti e la fase finale della vita del “boss dei due mondi” in una località protetta negli Stati Uniti. Ma nonostante un qualche appannamento, in questa fase, c’è un punto a nostro parere cruciale del film. Mentre al maxiprocesso, Buscetta era un predatore famelico, voglioso di attaccare i suoi nemici/ex-sodali, contro Andreotti (il potere con la P maiuscola) sembrava una bestia ferita e smemorata. Quasi ne avesse paura.
Nelle vicende narrate si ha la conferma di come il business dell’eroina con i suoi guadagni stratosferici abbia fatto saltare vecchie tradizioni criminali consolidate. Questo tema, del resto, viene magistralmente trattato nelle interviste di “Andare ai resti”, il libro di Emilio Quadrelli che racconta vividamente il mondo della detenzione italiana negli ultimi 50 anni. Con l’arrivo dell’eroina, il mondo in qualche modo artigianale della vecchia criminalità viene travolto dalle logiche imprenditoriali.
Quando Buscetta, durante gli interrogatori, parla a Falcone e ai giudici di vecchia mafia con “valori” forse si riferisce a questo. Non certo a una mafia buona…del resto, sia le atroci vicende del dopoguerra come la strage di Portella della Ginestra, che la prima guerra di mafia degli anni ’60 che la vicenda di Peppino Impastato (la cui lapide è stata vandalizzata oggi) stanno lì a smentirlo plasticamente, ma di una mafia più arcaica, più lenta, più ritualizzata, dove la parola aveva la stessa dignità dell’azione, poi travolta dalla voglia famelica di picciuli che la criminalità a gestione capitalistica poteva garantire. E paradossale è che gli esponenti di questa criminalità imprenditoriale fossero i mafiosi contadini di Corleone!
Buscetta è un esponente di rilievo della mafia perdente. E pur essendo un “soldato semplice” gode di una grande autorevolezza anche al cospetto della leadership di Cosa Nostra. E’ rispettato e ascoltato. E di questo si ha una dimostrazione evidente quando il suo ingresso per deporre nell’aula bunker di Palermo viene accolto in un silenzio quasi religioso nonostante le gabbie stipate di decine e decine di uomini d’onore.
Ed è qui che, a nostro parere, si raggiunge il punto più alto del film. Nel confronto tra Buscetta e Pippo Calò (lo Zio Carlo di “Romanzo Criminale”), il “cassiere di Cosa Nostra”, suo referente a Roma e amico intimo d’infanzia. Uno scontro tra titani del crimine organizzato, fatto di allusioni e non detti. Di sguardi e riferimenti molto siciliani. Un confronto in cui Buscetta, con la sua autorevolezza, uscirà vincitore. E Calò, colui che ha tradito l’antica amicizia per schierarsi con i Corleonesi e si è reso responsabile direttamente dell’omicidio di uno dei figli di Don Masino, uscirà irrimediabilmente sconfitto.
Altri momenti di valore sono le scene drammatiche delle torture inflitte a Buscetta in Brasile dove fu arrestato prima dell’estradizione del 1984. Uno Stato in questo caso capace di compiere crimini più atroci di quelli di qualsiasi famiglia criminale e, del resto, quello era il Brasile della dittatura militare. E quella della deposizione al maxiprocesso di Totuccio Contorno rappresentato da un Lo Cascio capace di mostrarne la tensione vitalistica quasi animale.
Buscetta dicevamo, fa parte della fazione perdente e, in fondo, la sua scelta di collaborare può anche essere vista come una “scelta politica”. Se non riesco a fare male ai Corelonesi, alla loro dittatura e ai loro alleati per via militare, allora ci provo utilizzando come strumento lo Stato.
Bellocchio e Favino ci restituiscono un Buscetta, anche sul piano fisico, pieno di umanità e contraddizioni e, in fondo, con questo film, si chiude in qualche modo un cerchio iniziato con “Buongiorno Notte” dove lì, a essere prigioniero, ma mattatore, era un uomo di Stato, Aldo Moro, e a essere carceriere, ma spalla, un brigatista, Mario Moretti. Qui la situazione si capovolge come in uno specchio. Il prigioniero è un criminale che è anche protagonista assoluto mentre il carceriere è un magistrato a suo modo spalla narrativa. Due film su due delle vicende più importanti della storia repubblicana: la lotta armata e la criminalità organizzata.
La scena finale, assolutamente poco edificante e per nulla scontata, ci mette sul chi vive nei confronti di un paese fatto di falsi pentimenti e di continui cambi di casacca. Un paese mai veramente capace di fare i conti con la propria storia: che si parli di fascismo, di anni ’70 o di criminalità è lo stesso. Un paese essenzialmente insincero dove la famiglia viene prima di tutto e dove, citiamo a memoria rischiando di sbagliare, ma il senso è quello: “Tutti aspirano alla santità, ma tutti continuano sempre a peccare!”.
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