Morti bianche: Cento tute vuote in Duomo, intervista a G.A. Benvenuto
Secondo l’Osservatorio Indipendente di Bologna sulle morti per infortuni sul lavoro, dal primo gennaio ad oggi sono 154 le morti bianche in Italia. A pochi giorni dal primo maggio, Gianfranco Angelico Benvenuto, artista e creativo udinese, ha inaugurato a pochi metri da piazza del Duomo a Milano l’installazione “Cento sogni morti sul lavoro”.
MilanoInMovimento l’ha intervistato per capire il significato della sua opera.
Ci vuole descrivere la sua opera? Che cosa rappresenta?
“Cento sogni morti sul lavoro” rappresenta la strage delle oltre mille persone che ogni anno perdono la vita lavorando in condizioni precarie e senza alcuna sicurezza, spesso per un guadagno che certamente non andava a finire nelle loro tasche. Ma rappresenta anche quei piccoli imprenditori che dopo aver dato fondo a tutto il proprio patrimonio, accantonato da una vita, davanti all’ultimo rifiuto, l’ultimo no delle banche, si sono suicidati.
L’installazione è stata descritta da alcuni come una composizione di manichini tecnicamente senza testa e senza gambe, ma in realtà si tratta di tute da lavoro vuote, sostenute da una struttura a spirale. L’aria le occupa e dà loro corpo. Quello che a me interessava era proprio questa fisicità, vaporeità e corporeità delle tute vuote.
Perché ha scelto questo soggetto?
Per dirci e ricordarci che sul lavoro ci vuole più sicurezza e più controllo. È necessario contenere il tracotante potere decisionale delle banche e della finanza, perché sono convinto che vero motore d’identità e di civiltà sia il lavoro.
La sua opera è stata ispirata da un episodio in particolare?
Sì, la morte di un ragazzo alcuni anni fa a Udine. Aveva 23 anni, era figlio unico ed è morto schiacciato sotto una parete di cemento in un cantiere edile. Avevo già rappresentato questo corpo in un’altra opera. Ho preso una tuta da lavoro e l’ho riempita di vento, anche allora per dar corpo all’assenza.
Qualcuno ha paragonato questa opera al Quarto Stato di Pelizza da Volpedo…
All’inizio non avevo fatto questa associazione, ma poi, quando l’ho realizzata, ho pensato: “cavolo è il Quarto Stato”. La differenza principale tra le due opere è che quella di Pelizza da Volpedo ha i colori della speranza, la mia invece no, visto che qui di speranza non ce n’è proprio. Ed era questo che mi interessava far capire.
Quali sono state le prime reazioni davanti all’installazione?
Uno dei commenti a caldo che ho sentito è stato “affascinante e allo stesso tempo angosciante”. Questo era il tipo di reazione che volevo suscitare, perché delle morti sul lavoro ci si dimentica facilmente ed è necessaria una maggiore sensibilizzazione. Penso che spetti a tutti noi fare qualcosa. Mi ha colpito anche il fatto che dei passanti abbiano messo dei fiori nelle tasche delle tute.
Che ruolo pensa debba avere l’arte nella denuncia sociale e nella politica?
L’arte è libera non è obbligata ad avere un contenuto sociale, ma per me deve averlo. L’arte non deve essere solo un gioco di immagini shock fini a se stesse. Anch’io uso immagini forti, ma come in questo caso, per veicolare un messaggio di denuncia.