La narrazione mancante: Il contributo di Daniele Di Stefano
Sembra che stia nascendo lo sperato dibattito sull’articolo “la narrazione mancante: una riflessione su immaginari e cultura dentro e fuori al movimento”. Regolarmente li pubblicheremo qui su Milano in Movimento.
Ciao Andrea,
ho letto il tuo articolo e devo dire che il tema mi interessa. Noto lo sforzo di portare all’attenzione una problematica che noi “dei centri sociali”, qualsiasi sia il nostro posizionamento nello scacchiere delle relazioni politiche, conosciamo bene, anche se difficilmente ne facciamo una questione dirimente nel dibattito interno.
Entro nel merito. Sono certo che tu sia ben più inserito di me nel mondo musicale, e resterò su questo che è il tuo terreno, ma per amore o per forza anche il mio: l’organizzazione di serate musicali è infatti il cuore della programmazione culturale di ogni centro sociale. Sono d’accordo con la tua affermazione iniziale: tutto ciò che ha mercato trova spazio nell’industria culturale, poiché l’obiettivo è la vendita. Ne deduco che, se ben pochi mettono in note e in rima l’immaginario dei centri sociali e dei movimenti, ciò avviene perché è un immaginario che non interessa pressoché a nessuno (è stantio, scollato dalla vita della gente “normale”, autoghettizzato, sloganistico, a metà tra ribellismo e randagismo, e tutte le critiche che si vogliono… le accetto tutte perché alcune le condivido). Ben altro era il contesto nel quale abbiamo iniziato (noi “giovani”) a fare politica, nel periodo delle grandi mobilitazioni contro i grandi vertici: la globalizzazione era sulla bocca di tutti, i professori ne infarcivano i temi scolastici, i media ne parlavano come di una grande scoperta. Le tattiche di lotta dei compagni attiravano l’attenzione generale, alcuni partiti e soggetti dell’associazionismo non disdegnavano una (spesso interessata) contiguità con i movimenti, che avevano nei militanti dei centri sociali una componente fondamentale, una delle più combattive. Tutto questo non esiste più: a Genova avevamo ragione noi, ma dal punto di vista politico e militare hanno vinto loro. Gli anni successivi sono stati di lento riflusso, scazzo, rincorsa sempre fallimentare alla collusione coi partiti (sotto elezioni) e inutile invettiva contro i partiti traditori (dopo elezioni). Ci sono state sì grandi fiammate studentesche, ma sempre costantemente seguite dal buio, e senza obiettivi conseguiti, a parte il rinnovamento del comune armamentario retorico. La nuova generazione non è cresciuta con il nostro immaginario adolescenziale, bensì sui social network e su internet. Ciò equivale a dire che è cresciuta con più possibilità di accesso alla conoscenza, ma anche più ripiegata, meno abituata alla strada e ai suoi aspetti più ruvidi. Tutto ciò non è facilmente rappresentabile, forse è ancora presto. Di fatto, per un ventenne oggi è più facile essere grillino che compagno, e ciò non cesserà di far danni negli anni a venire. Dunque, nessuno “narra” perché oggettivamente il nostro è un immaginario in declino. Credo che questa possa essere la stessa cosa che dici tu elencando gli artisti che hanno costruito il nostro immaginario negli anni ’90, ma da qui inizierei con le correzioni.
Prendiamo un Frankie Hi-Nrg, che esordiva scandendo “non sono un compagno, né un camerata”, o un Neffa che mi pare abbia abbandonato presto la retorica della “ballotta” in favore di lidi commercialmente più tranquilli. La ragione del loro successo non stava nel fatto di essere contigui a qualcosa, ma al massimo di essere compositori migliori di altri (così come gli Assalti Frontali o i 99 Posse, che sono compagni ma se fossero stati musicalmente scarsi avrebbero avuto vita breve): insomma, erano più bravi. Il magma c’era, ma molti di quelli che ne hanno fatto parte si sono presto raffreddati, perché erano sottoprodotti di un clima, epifenomeni, non ispiratori. Se poi penso a quelli che tu metti a confronto come esempi negativi (diciamo così: i venduti). Per anni, un tizio che è stato per me un compagno (sottolineo: è stato) ha curato la promozione dei Club Dogo e ricordo le sue parole di entusiasmo, probabilmente interessato, per i soggetti in questione. E quanti bazziconi di movimento erano pronti ad esaltarne le abilità musicali? Ma ora posso dirlo? A me facevano cagare e non rappresentavano proprio nulla del mio immaginario culturale… solo una riedizione di una cultura di strada un po’ vecchiotta, alquanto perniciosa nel suo ostinarsi nella gara a chi è più figo, e ovviamente di importazione. Ma di questo passo si entra nel de gustibus e non si approda a nulla.
Veniamo al versante nostro, quello più proprio dell’ambiente dei centri sociali. Parliamo di questo benedetto “trash”, partendo da quelli che ho sempre percepito come gli iniziatori qui da noi, Spazio Petardo, fino ad arrivare a tutti gli altri nelle altre città. Tu dici che il problema non è mai il tipo di musica. Io sono un po’ più classicista e non sono d’accordo. Capisco che una volta tanto ci si debba rilassare con un po’ di stronzate di quando eravamo bambini, ma quel che mi è insopportabile è vedere che più l’offerta culturale è penosa, più il pubblico aumenta. Il problema, a volte, è proprio nel genere: piace proprio perché va bene a chi è di bocca buona, troppo buona, proprio come un certo genere di elettronica, tanto in voga in altri spazi, piace a chi ha la bocca buona per ingerire di tutto. Mi spiace prendere toni da bacchettone ma sono cose che tutti abbiamo sperimentato, organizzando iniziative. Comunque, restiamo sul trash. I membri di questo o quel giro prendono come “prezzo di favore” tre-quattrocento euro a cranio per farci sentire quattro ore di pezzacci pop e sigle di disegni animati; il pubblico giubila – sempre meno, mi pare – ma io mi chiedo: perché al musicista che ha studiato uno strumento, si è fatto un viaggio per venire a suonare, e fa musica di qualità, dobbiamo a volte rinunciare perché non siamo in grado di coprirgli cento euro, e a codesti dobbiamo riconoscere tanti soldi? Semplice: è il mercato, bellezza, la gente viene a vedere il trash, non la musica di ricerca. Ma allora che cazzo di politica culturale è? Ci adeguiamo come fanno tutti, e se ci piace pure, tanto peggio per noi: si vede che di cultura ne abbiamo pochina, e non possiamo promuoverla ad altri… Comunque io non so se senza la musica trash starei peggio, non credo proprio. Quanto al reggae, problema analogo (a parte che non gli abbiamo affatto dato i natali): a volte i dj sono compagni, ma molto spesso no, anzi, vige un certo affarismo e il centro sociale è vissuto come la location dove effettuare serate che si farebbero comunque altrove. C’è chi campa di questo zelo organizzativo, c’è chi fa la gara a chi ce l’ha più grosso (l’impianto), c’è chi vive la dance hall perché è alternativo, ma se fosse pariolino andrebbe in disco e il suo consumo culturale avrebbe lo stesso livello di consapevolezza. E noi giù a far serate reggae. Perché? Perché il giro è consolidato. Insomma, sono anche queste ragioni pratiche che in termini di politica culturale lasciano il tempo che trovano. Di immaginario di movimento io ci vedo ben poco, per quanto abbia frequentato molti luoghi in cui il reggae ha avuto un peso di aggregazione non indifferente, compreso il mio… tu stesso ricordi la questione dei testi omofobi e misogini, che a me fa rizzare i pochi capelli che ho, ma per molti frequentatori è parlare arabo. Punto fondamentale, allora: BASTA ASSECONDARE I GUSTI DEL PUBBLICO. Per quello ci sono già radiotelevisioni e locali vari.
Quanto agli artisti che, pur avendo una certa contiguità tematica con noi, guardano con sdegno all’idea di suonare in un centro sociale, parliamoci chiaro: la mancanza non è solo delle nostre insufficienze tecniche. Il mio centro sociale si rifiuta ancora di fare serate il cui ingresso costi più di 5 euro, per questioni di accessibilità dei fruitori. Si vede subito che il 90% dei gruppi più bravi e affermati è quindi escluso a priori, giacché solo per pagargli il cachet e tutti gli ammenniccoli tecnici dovremmo prevedere un numero di persone superiori alla capienza dello spazio stesso. Chi resta? Quei pochi disposti a venire su presupposti che non sono “lavorativi”, bensì per la voglia di organizzare qualcosa con noi, supportare un progetto politico, eccetera. Allora le cose sono due: o per vedere un concerto in un centro sociale bisogna pagare 15-20 euro (ma allora perché non farlo in un locale qualsiasi?), oppure nel centro sociale si vanno a vedere solo gli emergenti, o gli affermati che per una volta rinunciano ai propri introiti abituali. In ogni caso, non c’è propulsione di una cultura autentica che non si trovi altrove.
Uno dei motivi di vera polemica con i militanti e i “giri larghi”, per me, è l’assurda commistione che si è creata tra centri sociali, locali commerciali e circoli Arci. Commistione di pubblico (e fin qui tutto normale), di militanti e di amicizie politiche. Tutto questo non mi piace. Un centro sociale per me è qualcosa non solamente di diverso, ma anche di belligerante con queste entità (so che per la gran parte dei compagni non è così: amen, è una vita che sono minoritario). I circoli Arci e i locali hanno propagato la possibilità dello svago alternativo, e alcuni hanno avuto abilità e sovvenzioni tali da permettersi proposte culturali di livello: i circoli Arci, a Milano, hanno più pubblico dei centri sociali. Anni fa, il Leoncavallo nel quale muovevo i primi passi iniziò una campagna contro la Fabbrica del Vapore… oggi si noterebbe a stento la differenza. Eppure, le ragioni c’erano, e sono le stesse per cui oggi, da militante, penso che i circoli Arci e i locali sovvenzionati andrebbero attaccati e stigmatizzati, anche se so che sono pieni di brave persone e talvolta di compagni. Molta gente che entra in un centro sociale a sentire musica trash o reggae, oggi, fatica a capire di non essere in un circolo Arci o in un locale qualsiasi. Una volta, nel mio centro sociale mettemmo in cassa un cartello: “NOI NON SIAMO UN CIRCOLO ARCI”, e la reazione di più d’uno fu: “Nooo… peccato, avevo la tessera!”. Per logica, la controcultura la fa chi è CONTRO, non chi fa parte di un apparato istituzionale nato in seno alle organizzazioni staliniste. In quell’apparato ci sono fior di ex compagni che se ne sono andati via dai centri sociali, estenuati dalle assemblee e dagli scazzi, e sono approdati laddove era più facile garantirsi un reddito restando nella movida. A me della movida non frega un cazzo (magari del reddito sì, ma non certo del loro). Per molti militanti, fare un’iniziativa all’Arci o al CS non fa differenza. Be’, per me sì. Mi sembra che troppo spesso la voglia di trovare larghi ascolti e ampi consensi, porti a delle evidenti aberrazioni.
Per farla finita, la conclusione è: se noi militanti e attivisti non ci facciamo portatori di una cultura di rottura, se noi insomma non siamo capaci di essere CONTRO al di là di certe pratiche ormai consuete, con quale faccia dovremmo chiedere ad altri, agli artisti, di interpretare il nostro humus, il nostro vissuto politico e personale, e farsene portatori? Dall’essere alternativi all’essere folkloristici il passo è breve. Casomai lo avessimo compiuto, sarebbe il caso di tornare indietro, o al contrario di ammettere che, di alternativo alla cultura dominante, non abbiamo che l’esiguità numerica… e su questo c’è poco da narrare.
Daniele