[DallaRete] Ciro tieni duro!
L’elicottero mi ronza in testa per ore, fastidioso come un parassita che vuole il tuo sangue. Fa ampi giri nello spiazzo antistante la Curva B. Si alza, si abbassa, scatta foto. Poi si ferma nell’aria puntando il faro verso il basso. E infine riprende a girare. Non c’è quasi nessuno, ancora. Solo io, un paio di parcheggiatori abusivi, due vigili in borghese che fanno finta di non vedere, il personale del gazebo e qualche altro tifoso. Poi via via la gente arriva, mentre l’elicottero annusa il sangue e continua a puntare. E girare. E fare foto. Ma quasi non ci faccio caso. Con la testa ferma a oggi pomeriggio quando mi sono incontrato insieme ad altri compagni con Enzo, lo zio di Ciro: il ferito più grave di Roma.
Per un assurdo scherzo del destino, Enzo lavorava in fabbrica con mio padre. Metalmeccanici che negli anni settanta producevano macchine da scrivere e sognavano la rivoluzione. E anche adesso che la rivoluzione non è arrivata, Enzo continua a non arrendersi. Espone la strategia, ascolta il nostro punto di vista, ogni tanto infila nel discorso qualche aneddoto di quei tempi lontani. E lo sguardo è quello di sempre, io me lo ricordo vagamente che ero bambino. Dentro c’è la fierezza operaia. E l’appartenenza. E così lo guardo dritto negli occhi e io lo so: Enzo non si arrenderà.
Intanto allo stadio continua ad arrivare la gente. “Perché sono qui?”, mi chiedo, guardandoli sfilare più silenziosi e composti del solito. Sono tre anni che ci vengo molto raramente. Qualche trasferta europea, qualche partita in casa, ma niente di paragonabile alla militanza fissa e costante durata tutta la vita. Ma so che è giusto esserci stasera. Come era giusto a Sassari e a Gela, quando per debiti infinitamente inferiori a quelli di altri club, ai quali venne concessa ogni agevolazione, ci spedirono in serie C a giocare sui campetti di provincia senza curve. Perché per una città che da 153 anni non ha più simboli di appartenenza, nulla probabilmente è più identitario della squadra di pallone. L’atmosfera intanto è tesa, ma è una rabbia che implode, ce la portiamo dentro perché sappiamo che anche stasera l’Italia è pronta a inquadrarci nel mirino tricolore. E a fare fuoco. Come sta facendo senza sosta da sabato sera, trasformandoci da aggrediti in aggressori.
Non si sa chi ha sparato, quante pistole hanno sparato, se i proiettili esplosi appartengono tutti alla stessa arma, quanti erano i membri del commando, se uno, cinque, dieci o venti. Stamattina il quotidiano della nostra città, che non appartiene alla nostra città ma al gruppo Messaggero, quindi ha agevole accesso a fonti romane, titolava: “Lo stub conferma: l’ultrà Roma ha sparato”. Poi nel pomeriggio, contrordine: De Santis non ha sparato. Come non sono esplose le bombe a Piazza Fontana e alla stazione di Bologna, a Ustica non è mai caduto un aereo, e i passeggeri di quel rapido 904 hanno trascorso il Natale del 1984 in compagnia dei loro cari. Perché anche in quel caso nessuna bomba è mai esplosa, nella dimensione parallela dell’Italia in cui i mostri sono i nostri tifosi.
Infatti a uno danno cinque anni di Daspo, e all’altro tre, con la ridicola motivazione di aver esposto striscioni che incitano alla violenza e invasione di campo. Ma quali striscioni? E quale invasione, se se ne restano rannicchiati su quelle balaustre che dividono il campo dalla curva e svolgono un’evidente azione di deterrenza alla pur legittima rabbia di una tifoseria alla quale non era stato concesso nemmeno l’ultimo desiderio di un annuncio ufficiale sulle condizioni di Ciro, prima della condanna a morte per via mediatica? La loro colpa è quella di essere visibili in diretta televisiva, mentre un telecronista che mi fa orrore pensare iscritto al mio stesso albo professionale, interpreta il gesto delle braccia come il cenno magnanimo di un imperatore, dando il via al linciaggio di una città intera. Non conta che i due neodiffidati vadano via intorno alla mezz’ora e vanno a trovare Ciro in ospedale. Nemmeno che lo soccorrano, rianimandolo più volte in quegli interminabili minuti che impiega l’ambulanza a raggiungere il ferito. Su un tratto di strada così breve e sgombro, che renderebbe eccessivo persino un intervallo di cinque minuti fra la chiamata in codice rosso e l’arrivo.
Nulla di tutto questo conta, perché loro sono napoletani e quindi lombrosianamente cattivi. Qualche audace giornalista lo scrive pure, derubricando a trascurabile dettaglio il fatto che le teorie razziste e antimeridionali di Cesare Lombroso sono considerate carta straccia dalla comunità scientifica. Utile al massimo per pulirsi il culo nei momenti di emergenza. E uno di loro indossa anche la maglietta dello scandalo “Speziale libero”, perché questo paese si fa governare venti anni da un dittatore, cinquanta dalla democrazia cristiana e altri venti da un pregiudicato, ma non può tollerare che un ragazzo, all’epoca dei fatti diciassettenne, che continua a proclamarsi innocente, possa avere diritto alla revisione di un processo che fa acqua da tutte le parti. E lo dicono degli avvocati, non io. Ne sono così convinti che lo mettono nero su bianco, facendoci un libro. Lo ribadisce anche l’avvocato romano Contucci, il maggior esperto di Daspo esistente in Italia: quella maglietta esprime un’opinione, non inneggia a un omicidio. Vuole giustizia, non celebra macabramente una morte.
Ma la testa dei nostri tifosi l’avevano chiesta in televisione prima Cerqueti e poi Bruno Vespa. E si sa: quando la televisione chiama, l’Italia risponde. Mentre intanto, nel magico circo tricolore di Sputtanapoli, la milanesissima Gazzetta dello Sport, annunciava che a una tipografia napoletana erano state commissionate 30mila magliette con la scritta “Speziale libero”. Una notizia da sbellicarsi dal ridere, se non fosse l’ennesima tonnellata di merda che viene gratuitamente sbattuta in faccia alla gente di Napoli e alla sua dignità. Quanto tempo ci vuole per procurarsi e stampare 30mila magliette? E chi avrebbe tirato fuori gli almeno 100mila euro necessari? Ma allo stadio, non ci crederete, le forze dell’ordine facevano davvero dei controlli random invitando ad aprire i giubbotti. Alla fine, secondo Il Mattino, ne avrebbero trovate tre, con altri tre Daspo che ancora una volta sanciscono che Berlusconi può dire a reti unificate che la magistratura è eversiva, ma i comuni cittadini non possono invocare la riapertura di un processo. Così, giusto per ribadire che la legge è uguale per tutti. E chiediamoci se domani avverrà la stessa cosa quando esporremo uno striscione per chiedere la libertà dei NoTav o di qualche attivista arrestato in una manifestazione e del quale siamo certi dell’innocenza. Possiamo far finta che non sia un problema di tutti, ma come scriveva Brecht, dopo aver preso tutti gli altri, arriverà anche il nostro turno. E non ci sarà più nessuno per difenderci e provare a tirarci fuori.
Peccato però che le le annunciate trentamila magliette si siano ridotte a tre. Avrei letto con trepidazione l’immancabile articolo di Roberto Saviano che avrebbe spiegato con dovizia di particolari come una partita di coca che la ‘ndrangheta aveva comprato dai colombiani e rivenduto ai marsigliesi, che a loro volta l’avevano ceduta per due terzi alla ricostituita mafia del Brenta e per un terzo al nipote di Vallanzasca, sia finita alla fine ai casalesi, divisa in parti uguali fra i clan napoletani, immessa nel mercato gomorroide di Scampia e, finalmente, trasformata in fruscianti soldoni avrebbe finanziato l’operazione “Trentamila magliette a favore delle mafie”. Certo, non il milione di baionette del duce, né il milione di posti di lavoro di Silvio Berlusconi, ma comunque un’impresa che sarebbe rimasta scolpita a lettere di fuoco nella storia gloriosa della penisola italica.
Invece alla fine cosa resta? Uno scenario da Romanzo Criminale, con test che cambiano risultato in poche ore, ipotesi che continuano a rincorrersi così allegramente da sembrare proprio un depistaggio in piena regola, perizie balistiche delle quali – chissà – forse un giorno verremo a conoscenza, tre feriti da armi da fuoco arrestati paradossalmente per rissa, cinque tifosi del Napoli colpiti da Daspo per una maglietta, un potenziale assassino che agisce dentro e fuori un’occupazione dell’estrema destra romana, trasformata in circolo di lusso messo sotto sequestro e chiuso coi sigilli il 25 marzo, ma misteriosamente ancora in attività. Con la ciliegina sulla torta del potenziale assassino che non ha sparato. Se mi date il pelato della serie Sky di Romanzo Criminale mi fate un favore, capisco pure da dove arriva questa inequivocabile puzza di servizi, che quando poi li sgamano li chiamano deviati. Dopo però, mai durante le deviazioni. Insomma, ce n’è così tanta di carne sul fuoco che fra qualche anno è probabile che Lucarelli dedicherà alla vicenda qualche puntata di Blu Notte 2, la vendetta – Gli infiniti misteri italiani. Magari ci spiegherà pure qual è la posta in palio: un Daspo esteso anche alle manifestazioni, una legge sugli stadi, una verità qualunque, oltre la cortina fumogena più spessa dei lacrimogeni CS che già da qualche anno ci tirano dietro. E talvolta pure dritti in faccia.
Credetemi, penso a tutto questo mentre si gioca la partita che il Napoli vince 3-0 e per la prima volta nella mia vita io non solo non esulto a nessuno dei goal, ma quasi non ci faccio caso. Poi me ne vado al minuto settantasettesimo e trentasette secondi, perché stare fermo mi rende nervoso e di guardare la partita non me ne frega più un cazzo. Do un ultimo sguardo a quelle centinaia di bambini assiepati per motivi a me ignoti al centro dell’anello inferiore dei distinti, che sono gli unici che tifano, ai tanti intorno a me al fianco dei loro padri, molti dei quali ritrovo da trenta o quarant’anni sempre allo stesso posto. Solo con i capelli più radi o più ingrigiti, le pance più prominenti e lo stesso indomabile spirito di appartenenza negli occhi. Penso a tutto questo mentre esco, al fatto che dobbiamo trasferirlo finalmente fuori dal campo e oltre il pallone, farlo nostro e diventare popolo e nazione. E in culo all’Italia matrigna degenere. Perciò urlo a squarciagola Ciro tieni duro, quando imbocco le scale sotto la torretta numero 5. Le stesse che salii la prima volta un giorno dei primi anni settanta, con la mano nella mano di mio padre. Un operaio che come Enzo, lo zio di Ciro, costruiva macchine da scrivere e sognava la rivoluzione. E nemmeno lui ha ancora smesso di sognarla.