[DallaRete] Buongiorno in musica a Yarmouk

pianoforteIntervista. Ayham Ahma è diventato famoso suonando il suo pianoforte in strada nel martoriato campo profughi alle porte di Damasco. Ora lo strumento è andato distrutto, ma nella musica lui ha trovato quella libertà che di solito viene negata ai palestinesi

Roma, 6 Maggio 2015, Nena News – Il campo pro­fu­ghi di Al Yar­mouk si trova a soli otto chi­lo­me­tri da Dama­sco. Edi­fi­cato nel 1957 e con un’estensione di circa due chi­lo­me­tri qua­drati, è stato abi­tato, fino a prima dello scop­pio del con­flitto siriano nel 2011, da circa 160 mila rifu­giati pale­sti­nesi, ospi­tan­done così la più grande comu­nità pre­sente sul ter­ri­to­rio siriano. A seguito dei 450 giorni di asse­dio impo­sto nel 2013 dalle forze di Bashar al Assad, l’insediamento vive una deva­stante crisi uma­ni­ta­ria, aggra­vata dall’occupazione, lo scorso 1 aprile, dei mili­ziani dell’autoproclamato Stato Isla­mico, oggi in parte respinti da alcune fazioni pre­senti nall’interno del campo.

Para­digma dell’intera crisi siriana, Yar­mouk si pre­senta come una città fan­ta­sma, con strade e case per lo più abban­do­nate e nuclei fami­liari divisi. Una seconda Nakba, per i pale­sti­nesi di qui, figli di un popolo senza terra, vis­suta, forse, solo tra­mite le lim­pide memo­rie dei più anziani. La “cata­strofe” del 1948 è un qual­cosa che torna, ancora una volta, a ferire l’inquieta sto­ria pale­sti­nese. Ma c’è chi è rima­sto a riem­pire quel vuoto spet­trale con note di speranza.

Ayham Ahmad, 27 anni, è un gio­vane pale­sti­nese di Yar­mouk. Pri­gio­niero in casa pro­pria, non ha mai smesso di ricer­care quella libertà negata, sepolta sotto le mace­rie di Dama­sco. Un, sep­pur fra­gile, col­le­ga­mento Skype ci ha aiu­tato ad ingan­nare la realtà, per­met­ten­doci di var­care, per un istante, quelle rigide bar­riere impo­ste dalla guerra. Un car­tello in arabo, tenuto all’altezza del petto, dice «buon­giorno», come a ricor­darci quo­ti­dia­na­mente del pro­prio diritto all’esistenza. Voce tran­quilla, volto solare, si rac­conta ogni giorno nel silen­zio gene­rale, attra­verso le note del suo pia­no­forte che con corag­gio tra­sporta lungo le strade deserte e mar­to­riate di al Yar­mouk assediata.

Quando hai inco­min­ciato a suonare?

Da bam­bino, avevo 7 anni. Poi mi sono iscritto al con­ser­va­to­rio di New Cham, vicino Dama­sco, ma ho con­ti­nuato anche dopo l’Università che ho fre­quen­tato, invece, a Homs. Avevo biso­gno di suo­nare. Ma il 17 dicem­bre di due anni fa tutto è cam­biato. Yar­mouk è stata chiusa e sono ini­ziati i primi pro­blemi. Con la caduta del campo ho scelto di suo­nare il piano in strada. È stato l’unico luogo in cui ho potuto eser­ci­tarmi ogni giorno.

Cosa ti ha spinto a suo­nare in strada?

Ini­zial­mente pen­savo che l’idea di suo­nare in strada fosse ottima per dare la pos­si­bi­lità alla gente di Yar­mouk di ascol­tare musica “inter­na­zio­nale”. Bee­tho­ven, Mozart, Cia­j­ko­v­skij per esem­pio. Dopo invece, ho deciso di farlo prin­ci­pal­mente per espri­mere e nar­rare i loro sen­ti­menti. Sen­tivo che la mia musica doveva essere per i pale­sti­nesi, doveva rac­con­tare la loro sto­ria, la mia sto­ria. Le voci di Yar­mouk, sono le mie can­zoni. Rac­con­tano la rab­bia del campo, l’assedio, la man­canza di acqua, la fame e l’isolamento che ci è impo­sto per via della guerra.

Spesso ti si vede, in alcuni video su inter­net, cir­con­dato da ragazzi che can­tano con te…

Si, infatti. Ho ini­ziato a suo­nare in strada da solo, ma poi for­tu­na­ta­mente ho tro­vato per­sone a cui que­sta idea è pia­ciuta e che hanno deciso di per­se­guirla insieme a me. Abbiamo anche costi­tuito un gruppo, gli She­bab Yar­mouk, i gio­vani di Yar­mouk. In que­sto modo abbiamo voluto lan­ciare un mes­sag­gio di pace e bene­vo­lenza all’interno del campo e non. I ragazzi non stu­diano musica, ma pos­sono comun­que can­tare. Abbiamo ini­ziato a suo­nare insieme anche per­ché, avendo stu­diato al con­ser­va­to­rio, avrei potuto dare loro la pos­si­bi­lità di impa­rare e di approc­ciarsi alla musica. Insieme abbiamo scritto quasi 100 brani.

E i bam­bini? Come hanno reagito?

A loro piace molto la musica e spesso can­tano con me. È sicu­ra­mente un modo per loro per fare qual­cosa, per tenersi impe­gnati e distrarsi da una situa­zione dif­fi­cile. Ma ciò che ho impa­rato è che nelle dif­fi­coltà nasce la forza per cam­biare qual­cosa. Da poco ho ini­ziato a inse­gnare in una scuola, anche se è una scuola “d’emergenza”, dove abbiamo orga­niz­zato vari eventi e con­certi per la comu­nità del campo.

Cosa hai pro­vato la prima volta che hai suo­nato in strada?

Sin­ce­ra­mente è stato tri­ste, per­ché sapevo di non avere la pos­si­bi­lità di potermi esi­bire in con­di­zioni “nor­mali”, non so, su un palco per esem­pio o in un bel tea­tro, insomma, in situa­zioni migliori di que­sta, ma dall’altro lato sono stato molto felice; il vedere i bam­bini con­tenti o le altre per­sone che si avvi­ci­na­vano per ascol­tare è stato impor­tante per me, per­ché ho avuto la prova che stavo facendo qual­cosa di buono e di utile per il campo. Yar­mouk è un luogo pieno di pro­blemi, anche tra le stesse fazioni pale­sti­nesi, lon­tane per le loro visioni, ma unite nella musica.
Quale impatto ha avuto la tua musica sulle per­sone che ti hanno ascol­tato per la prima volta? È da circa due anni che suono in strada. Molti non cono­sce­vano il pia­no­forte e mi chie­de­vano «cos’è que­sto stru­mento?». Però hanno subito per­ce­pito quelle sen­sa­zioni che il suono del piano creava intorno a loro. Sen­ti­vano di aver tro­vato qual­cosa, un mezzo forse per affron­tare la realtà e per potersi espri­mere e par­lare libe­ra­mente di cosa è oggi Yar­mouk. Hanno tro­vato nella musica la libertà. Sono stati attratti per­ché in un certo senso par­lavo di loro e delle nostre sto­rie comuni.

Quali sono le con­di­zioni di vita a Yar­mouk ora?

La situa­zione è tra­gica: non c’è elet­tri­cità né cibo, non c’è pra­ti­ca­mente nulla. Alcune asso­cia­zioni che ope­rano nel campo cer­cano ogni giorno di sod­di­sfare le esi­genze pri­ma­rie della popo­la­zione. Un pro­blema grave è l’acqua pota­bile, che manca quasi com­ple­ta­mente. Le asso­cia­zioni si limi­tano ad aiu­tare le per­sone eco­no­mi­ca­mente più deboli. L’acqua è troppo costosa e non tutti rie­scono a procurarsela.

Quante asso­cia­zioni lavo­rano nel campo?

Quat­tor­dici, ma solo due sono attual­mente attive. Pur lavo­rando ogni giorno, la fame sem­bra incon­tra­sta­bile. Molte per­sone lavo­rano duro per avere sem­pli­ce­mente un piatto di zuppa, ovvero acqua, sale e riso, che è pur sem­pre qual­cosa per tenere piena la pan­cia. Un chilo di riso costa 25 dol­lari, forse 3 o 4 dol­lari in meno per chi rie­sce ad uscire da Yar­mouk. Per gli abi­tanti di Bab­bila, invece, cit­ta­dina a circa 5 chi­lo­me­tri dal campo, il prezzo di un chilo di riso è sceso a 12 dol­lari gra­zie agli accordi tra com­bat­tenti e governo. Ma rimane sem­pre un bene molto costoso per­ché la stra­grande mag­gio­ranza non rie­sce a lavo­rare da mesi. Inol­tre ora è anche molto peri­co­loso uscire di casa per cer­care del cibo, per via dei bom­bar­da­menti e dei fre­quenti scon­tri nelle aree sia interne che limi­trofe al campo. Un altro pro­blema serio è il freddo. Alcune fami­glie lo scorso inverno hanno ini­ziato a bru­ciare tavoli e sedie. Su 18 mila per­sone rima­ste a Yar­mouk, circa 3.500 sono bam­bini. Il freddo è molto peri­co­loso per loro, rischiano l’assideramento.

Quale è il mes­sag­gio che vor­re­sti dif­fon­dere con la tua musica?

Il campo è come se fosse una pic­cola Siria. Noi però non vogliamo la guerra, vogliamo una vita nor­male. Yar­mouk ora è distrutta, ma vor­remmo rico­struirla, ma per farlo le per­sone che sono andate via devono tor­nare. Il primo mes­sag­gio è rivolto a loro ed è che ognuno di noi può fare qual­cosa, soprat­tutto i gio­vani. Nulla è finito, pos­siamo ancora spe­rare nel futuro e nella vita. Penso che la musica sia una lin­gua per comu­ni­care con il mondo. Diversi sono i mes­saggi, alcuni li ascolti e li per­ce­pi­sci, ma non puoi espri­merli a parole. Molti usano la musica per se stessi, per suc­cesso, per pro­pa­ganda o per guerra, ma non la vivono real­mente. Io pre­fe­ri­sco fare musica per la musica e par­lare attra­verso di essa. Per que­sto vor­rei suo­narla ovun­que e potermi sen­tire libero di suo­nare per la libertà. «Ho dimen­ti­cato il mio nome — dice una mia can­zone -, ho dimen­ti­cato le sue let­tere e i suoi signi­fi­cati; ho dimen­ti­cato le parole, quelle che ho pro­nun­ciato con il canto. Ma qui si vive ancora, qui, accanto a un pezzo di pane e a del cibo in sca­tola. Quanto è bello essere pale­sti­nese, quanto è tri­ste essere pale­sti­nese. Ho dimen­ti­cato il mio nome!».

Il pia­no­forte di Ayham è andato distrutto, il giorno del suo ven­ti­set­te­simo com­pleanno, durante alcuni scon­tri nel campo. Nono­stante que­sto, con­ti­nua oggi a par­lare al mondo, con le note stroz­zate di una tastiera a bat­te­rie, in con­certi via Skype, unico canale di espres­sione di se stesso rima­sto­gli, unica voce del campo capace di sfon­dare il muro del silen­zio. Per­ché que­sta è Al Yar­mouk, dove la luna è incom­pleta, ma la vita va avanti. 

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