Crisi economica e migrazioni

Quali sono le cause della crisi economica? Come cambiano i flussi migratori? Quali effetti comporta la crisi sulla già precaria vita dei migranti? Queste ed altre le domande rivolte a Carlo Devillanova, docente di economia all’Università Bocconi, durante un’intervista pubblica che si è svolta al NAGA martedì scorso.

La crisi colpisce gli immigrati, in termini di disoccupazione, due volte tanto rispetto ai nativi europei. In Lombardia, tra i migranti i disoccupati irregolari (27% nel 2010) sono molto di più di quelli regolari (11%). Tuttavia, il fenomeno del “lavoratore scoraggiato”, che si ritira dal mercato dopo aver perso il posto di lavoro, si verifica tra gli autoctoni ma non tra i migranti, che privi di reti di supporto istituzionali e familiari continuano a cercare lavoro e lo trovano più facilmente degli europei. Ma a quali condizioni? Aumentano i contratti a termine, soprattutto nei settori meno colpiti dalla crisi (agricoltura e servizi domestici) ma al contempo diminuiscono i salari (si allarga la fascia di chi guadagna tra i 500 e i 700€ al mese). Dunque i migranti lavorano ma guadagnano meno, continuando però a mandare soldi a casa: le rimesse diminuiscono solo in minima parte rispetto all’entità della crisi, anche se hanno un potere d’acquisto sempre più basso nei paesi d’origine.

Se questo è il quadro, la recessione dovrebbe scoraggiare l’immigrazione verso i paesi occidentali. Analisi effettuate sui paesi europei dimostrano che in periodi di crisi si riducono sia i flussi in ingresso sia quelli di ritorno (le condizioni economiche difficili scoraggiano da entrambe le parti di lasciare il paese in cui ci si trova:  quello originario, in cui si resta per fornire supporto alla famiglia e quello d’arrivo, da cui gli irregolari non ripartono per paura di non potervi più fare ritorno). In Italia invece aumentano i flussi di ingresso e di conseguenza la domanda di lavoro, a fronte di una riduzione di offerta. Come mai l’immigrazione aumenta in un paese in crisi? Che effetto hanno tutti questi ingressi sugli italiani? Ci portano via il lavoro? Fanno aumentare la spesa pubblica accedendo ai nostri servizi? Dati alla mano, Devillanova tenta di dare alcune risposte. Cita innanzi tutto uno studio in base al quale gli immigrati centroaficani che vivono a Milano, per non dichiarare il fallimento del proprio progetto migratorio, quando “chiamano a casa” fanno rappresentazioni così positive della propria situazione da incoraggiare i connazionali a venire in Italia. Gli ingressi hanno un effetto negativo sui salari e sull’occupazione italiana soltanto per le occupazioni di bassa qualifica, mentre determinano effetti positivi sia rispetto alle fasce autoctone con alto livello di istruzione e di reddito (per esempio fornendo assistenza domestica a basso costo), sia per quanto riguarda i contributi che vengono versati dai giovani migranti regolari. Dato negativo invece riguarda gli immigrati di seconda generazione, gli unici con cui i nuovi arrivi entrano davvero in competizione. Nessuno studio invece dimostra che l’aumento dell’immigrazione determina un aumento significativo delle spese di welfare.

Certo sono tantissimi i migranti che non pagano i contributi perchè lavorano in nero (i dati del NAGA dimostrano che tra i loro utenti irregolari il 67% lavora). Tralasciando le osservazioni che si potrebbero fare rispetto ai meccanismi di diffusione del lavoro sommerso indotti dalla Bossi-Fini, Devillanova critica quelle posizioni per cui si giustificano le politiche di restrizione degli accessi per gli immigrati con la scusa di contrastare la diffusione del lavoro nero. L’intensificazione dei controlli alle frontiere, oltre a comportare notevoli costi, si rivela inefficace perché non fa che dirottare i flussi su altri canali di ingresso, induce gli irregolari presenti a non lasciare il paese in cui si trovano e favorisce le organizzazioni criminali che lucrano sulla tratta dei clandestini. Quando negli Stati Uniti si decise di aumentare i controlli ai confini col Messico il risultato immediato fu l’incremento dei prezzi richiesti dai coyotes per organizzare gli ingressi irregolari: i soldi dei contribuenti statunitensi finivano di fatto nelle mani dei trafficanti messicani.

Ma perché parlare di immigrati quando la crisi colpisce tutti e gli italiani stessi faticano ad arrivare a fine mese? Il Professore ci mostra un interessante parallelismo tra la crisi del 2008 e quella del 1929: in entrambi i casi negli anni immediatamente precedenti al crollo si registrano i picchi più alti di disuguaglianza all’interno dei paesi industrializzati (nel 1927 il 50% del reddito negli Stati Uniti era distribuito soltanto tra il 10% della popolazione più ricca, dato incredibilmente simile a quello del 2007). Il Fondo Monetario Internazionale (tenere bene a mente la fonte!) nel 2010 ha pubblicato un documento ufficiale dove si analizza la crescita della disoccupazione nei due anni precedenti, indicando tra le cause della crisi l’aumento della flessibilità delle istituzioni del mercato del lavoro (aumento della precarietà, profili salariali più bassi, debolezza delle istituzioni sindacali) con conseguente importante calo della domanda aggregata. In altri termini, lo stesso FMI esprimeva la propria preoccupazione rispetto alle politiche di privatizzazione e liberalizzazione che oggi ci vengono propinate come soluzioni al default. Da quest’analisi, in netto contrasto con le indicazioni che ritroviamo oggi nelle famose lettere della BCE, numerosi economisti deducevano alcune necessarie implicazioni di policy: estrema cautela nell’aumento delle imposte e nella diminuzione della spesa pubblica (che producono un ulteriore effetto recessivo riducendo il potere d’acquisto dei cittadini) e una più equilibrata distribuzione del reddito tramite il rafforzamento delle istituzioni del lavoro e della protezione sociale. Devillanova è convinto che la soluzione richieda un radicale cambio di paradigma culturale, che miri alla riduzione delle disuguaglianze come punto di partenza fondamentale per fronteggiare la crisi. Ecco perché è importante guardare anche all’immigrazione: una mancata “integrazione”, che produce una corsa al ribasso in termini di condizioni lavorative e salariali, comporta l’aumento delle disuguaglianze all’interno del paese contribuendo a minarne la stabilità.

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