Ceci n’est pas une fête
Partiamo da una riflessione su quanto successo il 31 ottobre nell’Università Statale di Milano.
La cronaca di una giornata di lotta che deve servirci come bussola per orientare i nostri lavori ed indicare quelle antinomie attorno a cui il nostro lavoro deve concentrarsi ed aprire nuovi spazi di rivendicazione.
Il contesto è surreale. Tutti si aspettavano un tranquillo giovedì universitario prima dell’inizio di un lungo ponte, molti fuorisede sono già tornati a casa o aspettano la fine delle lezioni per partire sul primo treno.
Eppure, ad aspettarci c’è un’università presidiata in forze da polizia e guardie private, ci sono avvisi di chiusura anticipata (con annessa sospensione delle lezioni).
Allarme rosso, allarme rosso: gli studenti vogliono organizzare una festa!
Un turbine di nervosismo invade gli uffici amministrativi del Rettorato, la paura che qualcuno possa aprire uno squarcio nella grigia monotonia in cui è immersa l’Università Statale di Milano.
Ma non è bastato. Quando gli studenti (medi ed universitari) si organizzano e rivendicano il diritto a vivere i loro spazi non servono a nulla le urla scomposte del Magnifico Rettore Elio Franzini (si quello del “Mai più polizia in università!”) al telefono con la Questura, né la massiccia presenza di Digos fuori da via Festa del Perdono.
I corpi si incontrano e sprigionano potenza, nulla può il potere.
Le 4.000 persone che hanno attraversato la sede di via Festa del Perdono sono la testimonianza della necessità di spazi di socialità esterni alla logica del profitto imperante in questa città.
Incontrare resistenze è la cartina tornasole del nostro lavoro, tutta questa vicenda ri-porta la nostra attenzione sulla “questione universitaria”.
Interrogarsi su che cosa sia l’università oggi significa assumere che l’università per come l’abbiamo conosciuta non esista più. Ha vinto l’università-azienda, il 3+2 (la riforma Berlinguer-Zecchino), l’università della crisi.
Il campo del sapere è legato a doppio filo ai cambiamenti del complesso economico sottostante.
Centralità dei saperi nelle forme di produzione, saperi da formare in maniera compulsiva e fin da subito spendibili nel mondo del lavoro. Viene meno la centralità delle istituzioni formative, la produzione dei saperi tende sempre più a eccedere i confini dell’università per socializzarsi in tessuti cooperativi e reticolari, costringendo il capitale a catturare a valle quelle forze produttive che non riesce più a organizzare a monte. Per questo motivo l’università, così come l’intero regime economico e sociale, è sempre affacciato su una crisi che tende a diventare permanente.
Di pari passo si intensifica l’intrusione dei capitali privati all’interno degli atenei e si cancella l’opposizione tra pubblico e privato, due facce del processo di accumulazione capitalistica.
Cambia l’istituto di formazione e insieme ad esso la soggettività che esso produce: la figura dello studente. Ormai non più forza-lavoro in formazione ma a tutti gli effetti lavoratore già precarizzato (progetto di sé), studente-utente-sfruttato che vive la fine dell’università come ascensore sociale.
Milano resta una città che anticipa i flussi e i cambiamenti nella composizione di “classe”. Dietro alla retorica della città più vivibile di Italia si nasconde un fortino per ricchi. Così lo studente delle prestigiose università milanesi è costretto ad una vita da pendolare o da lavoratore (votando così la sua intera giornata alla produzione di plusvalore diretto).
L’università mediante l’aumento delle rette a carico degli studenti si mostra come un luogo elitario. Le materie umanistiche sono sempre più bistrattate: non c’è alcuna autonomia da rivendicare, l’università non è che lo specchio di ciò che ci si ostina ancora a chiamare il mondo fuori di essa. L’università, in quanto spazio pubblico (luogo in senso pieno) viene svuotata del suo valore trasformandosi in vetrina per grandi eventi e mero esamificio rendendo impossibile qualsiasi forma di auto-organizzazione esterna a queste logiche.
Anche il discorso professorale in sé stesso, indipendentemente dall’oggetto che esso affronta, non è schiettamente neutro: per quanto il vanto di obiettività e autonomia faccia da sottofondo alle lezioni, questo serve solo a nascondere l’essenziale parzialità, l’assenza di un’emancipazione dal padrone. Dichiarando neutro il discorso professorale non solo si cela che il docente universitario altro non è che un funzionario statale, ma si dà a quest’ultimo il pretesto per non farsi carico della responsabilità del proprio parlare.
La giornata di giovedì vuole portare un punto di discontinuità a questo processo, portandoci in primis a ragionare ancora su come creare nuovi strumenti ed una nuova semantica in grado di produrre discorso.
Ma quello che più viene sottolineato è come: “Nella lotta questa massa si riunisce, si costituisce in se stessa”, come gli studenti nella auto-organizzazione, nel violare i divieti imposti da questura e Rettore si comprendono per-sé e lo fanno riappropiandosi di una socialità libera ed indipendente.
LUMe – Laboratorio Universitario Metropolitano
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