Time For Unity
Immagini dal congresso del Sinn Féin, Derry 15/16 novembre 2019.
Derry, la città della Bloody Sunday e pioniera nel processo di pace, affacciata tramite il fiume Foley sul gelido Mare del Nord e recentemente salita alle cronache per la serie Netflix Derry Girls, fa da cornice all’Ard Fhéis del Sinn Féin, il congresso annuale del partito, già braccio politico dell’IRA.
È stata una bella emozione ricevere l’invito a partecipare a questo congresso, per noi che siamo cresciuti con il mito di Bobby Sands e dei ribelli irlandesi e che abbiamo attraversato questi luoghi con percorsi e progetti di solidarietà e politica.
Con la Brexit la situazione si è fatta molto più fluida. La sensazione è che “the same aim of 1916”, la costruzione di un Irlanda unita (e socialista), sia un obiettivo più vicino dopo Ottocento anni di occupazione e delle migliaia di morti, lunghe detenzioni e repressioni feroci che ne hanno punteggiato la storia. Quando con Paddy e Luke entriamo nel forum che ospita il congresso i lavori sono iniziati da poco e un grande banner verde con scritto “Time for Unity” palesa la semplicità di un progetto politico che non è solo un’utopia.
L’accordo di pace del Venerdì Santo che regge da una ventina d’anni è un accordo complesso, sia interno all’Irlanda del Nord che transnazionale (Regno Unito e Irlanda reciprocamente hanno rinunciato a porzioni di sovranità e rivendicazioni sulle sei contee del Nord). Nell’impianto dell’accordo, insieme ad esempio allo smantellamento dell’arsenale repubblicano e alla liberazione dei prigionieri politici, ci sono le clausole che prevedono la non ricostruzione dell’hard border, la frontiera dura tra le due Irlande, e l’impossibilità di indire referendum unilaterali sull’unità d’Irlanda. Evidentemente in caso di Brexit no-deal la frontiera tornerebbe in atto offrendo automaticamente la possibilità di indire un referendum, essendo venuti meno gli accordi, per raggiungere finalmente l’Irlanda unita.
Ma se rimanesse valido l’accordo del Venerdì Santo, nella sua prefazione è ribadito il principio dell’autodeterminazione dei popoli, clausola che obbligherebbe Westmister, in caso di un sentimento sempre più propenso al remain in Europe dei nord-irlandesi, a indire un referendum. Sono queste clausole che offrono a Mary Lou McDonald, presidente del partito, il destro per poter promettere che nei prossimi cinque anni i repubblicani irlandesi caleranno l’asso rimasto dentro al mazzo degli accordi: “il Referendum sull’Unità d’Irlanda, non è più questione di se ma di quando”. E come ha ribadito Elisha McCallion, candidata al Parlamento di Westminster (parlamento dove lo Sinn Fèin è eletto ma non siede) per le prossime elezioni di dicembre “La partition ha fallito, la partition è il passato”.
Il congresso scorre in una selva di mozioni discusse e votate quasi sempre in modo bulgaro. Si conferma l’anima socialista del partito, in grado di proporsi ormai come credibile forza di governo. La nuova generazione di leader, donne giovani e non coinvolte direttamente nel conflitto, ha spinto in avanti l’agenda politica allineando il partito alle più avanzate tendenze del socialismo del terzo millennio: un robusto piano di welfare state, Green New Deal, “il più grande piano di edificazione di case pubbliche della storia della repubblica d’Irlanda”, riduzione delle tasse per chi affitta la casa, accesso alla Sanità gratuita e universale come diritto umano, national childcare, scuola e università pubbliche e gratuite. Ma anche tesi storiche come quelle relative alla nazionalizzazione delle banche, oltre alla difesa e alla promozione della lingua gaelica.
Negli spazi del teatro si aggirano centinaia di militanti di tutte le età. L’efficienza organizzativa che si palesa non lascia indifferenti, come non passano inosservati gli addetti al servizio d’ordine, robusti signori arabescati di tatuaggi sbiaditi sugli avambracci, segni evidenti del passaggio per le galere della Regina.
Anche Gerry Adams, seppur defilato, ha voluto portare il proprio contributo nei lavori congressuali: “L’unità d’Irlanda non è un’ambizione ma un progetto. Questa è la prima generazione che può ottenerla pacificamente, come non è stato possibile alla generazione di Bobby Sands e Martin McGuinness”. Capelli lunghi e bianchi, stazza ancora imponente, il vecchio e indiscusso leader, oramai quasi ritirato a vita privata (anche se come ha ribadito “un repubblicano socialista irlandese non si ritira mai”), è attualmente impegnato a raccogliere i tasselli della memoria pubblicando le biografie delle donne e degli uomini che hanno segnato la storia del movimento repubblicano.
Il riferimento a McGuinness, Capo di Stato Maggiore dell’IRA negli anni ’70, non è stato affatto casuale. Infatti a due anni e mezzo dalla sua scomparsa il congresso gli ha reso omaggio proprio nella sua città. Mary Lou McDonald nel discorso di chiusura, mandato in diretta sull’equivalente irlandese di Rai 1, ha iniziato ribadendo la solidarietà a Evo Morales, a Gaza sotto le bombe e alla Catalogna, ha chiesto la liberazione di John Downey, arrestato due settimane fa per l’omicidio di due soldati dell’UDR avvenuto nel ’72, e ha finito ricordando la figura di McGuinness. Quando abbiamo capito che la voce bianca che intonava la melodia di Amhràn na bhFiann, l’inno irlandese cantato in gaelico, era la figlia di McGuinness, mentre tutti scattavano in piedi sinceramente non è stato facilissimo trattenere le lacrime.
L’Ard Fhéis riunisce una comunità politica forte e vasta, fatta non solo di delegati ma di donne e uomini uniti da decenni di lotta e di guerra. Biografie densissime, personaggi in grado di mettere in scacco uno degli imperi più potenti della storia. Lo notiamo soprattutto negli eventi a margine del congresso. Alla fine dei lavori, il sabato sera, partecipiamo a una cena di raccolta fondi al City hotel di Derry. Attorno ai tavoli siedono almeno tre generazioni di militanti.
Mary Lou McDonald fa gli onori di casa e invita a salire sul palco Mitchel McLaughlin, colonna portante del Sinn Féin di Derry: “Siamo un movimento straordinario e spesso ci descriviamo come una famiglia. Ma siamo di più di una famiglia, siamo una collezione di leggende!”.
Difficile darle torto visto il parterre. Giusto accanto a lei sorride Brendan “Bik” MacFerlaine, ufficiale di comando della Provisional IRA nel carcere di Long Kesh durante i drammatici mesi dello sciopero della fame del 1981 e poi leader della “Great Escape” nel 1983.
A un rapido sguardo scorgiamo Sean “The Surgeon” Hughes, vicecomandante della gloriosa South Armagh Brigade, vera e propria spina nel fianco dell’esercito inglese.
E poi ancora Martina Anderson, ex-europarlamentare e ragazza del Bogside, volontaria Provos con una sentenza all’ergastolo e rilasciata dopo tredici anni grazie agli accordi del Venerdì Santo. O Gerry Kelly, numero tre del partito, della Brigata Belfast, protagonista insieme a “Bik” della grande evasione. O Pat Sheehan, sopravvissuto a 55 giorni di sciopero della fame nel 1981. E tanti e tante altre, passati attraverso anni di attività armata e detenzione.
Lasciamo Derry una gelida domenica mattina grigia e piovosa. Prima però, in compagnia di Paddy e Dalton Kelly, vecchio sindacalista membro del Sinn Féin di Dublino, uno dei redattori degli accordi del Venerdì Santo, ci rechiamo in visita al city cemetery di Derry dove è sepolto Martin McGuinness, suo grande amico. La tomba è allineata in una fila di lapidi nere lucide. Appartengono ai volontari caduti della Brigata Derry dell’IRA. Dalton ci indica la statua che ne omaggia il sacrificio: un giovane guerriero nell’ultimo attimo di vita. “E’ Cu Chulainn, protagonista del ciclo dell’Ulster, antica saga celtica. E l’uccello sopra di lui è Morrigan, divinità della morte che incombe sui guerrieri nel momento supremo. C’è un legame profondissimo tra la mitologia celtica e la storia della lotta di liberazione irlandese, che anche la chiesa cattolica ha dovuto integrare suo malgrado. Come la storia della croce celtica insegna”.
Mentre il freddo gelido del Nord sferza i baveri, Dalton, comunista e sindacalista, riflette con noi sul nazionalismo e su come la sinistra abbia lasciato cannibalizzare alla destra concetti come identità e radici culturali. “Sporcandole in maniera orribile e facendo diventare gabbie chiuse spazi che sono invece spazi aperti di condivisione. Perché le identità non sono mai statiche e le nazioni non sono prigioni”. “Certo, vista da questo punto di osservazione, l’Irlanda, sembra tutto più facile” osserviamo noi, “Da noi in Italia il nazionalismo non evoca bei ricordi”. “Qui il nazionalismo irlandese – prosegue Dalton – non ha mai significato sopraffazione, al contrario si è identificato sempre con gli oppressi di tutto il mondo, fino ad immedesimarsi con la causa della classe operaia, come diceva James Connolly. Poi siamo un popolo di emigranti, sappiamo cosa vogliono dire il razzismo, la povertà e l’emarginazione. Per questo non possiamo non solidarizzare con i profughi in fuga”. In effetti basta dare uno sguardo a tutto l’apparato iconografico repubblicano, bandiere della Palestina, di Euskadi, delle YPG/YPJ, Cuba, Nicaragua e tutto quel Pantheon antimperialista forse un po’ dimenticato dalle nostre parti. È lui stesso a ricordarci la gioiosa esultanza antifascista dei tifosi del Celtic, squadra irlandese di Glasgow, nella vittoria contro la Lazio di due settimane fa.
Proseguendo la chiacchierata facciamo notare la presenza di un sit-in di antiabortisti all’entrata del congresso. Dalton ammette: “E’ stato difficile far accettare la posizione pro-aborto soprattutto alle vecchie generazioni, ma l’Irlanda è un paese giovane e progredisce in fretta, la leadership femminile ha poi aiutato a far metabolizzare questi passaggi anche ai più recalcitranti, generando una piccola scissione di antiabortisti” proprio loro, quelli davanti al teatro, peraltro non considerati dai partecipanti. “E poi si tratta del corpo delle donne, non c’è molto altro da dire, sono loro a decidere” chiosa seccamente.
Nel viaggio di ritorno verso Dublino, attraversiamo un confine che non esiste, perso tra distese di verdissimi pascoli collinari punteggiati da greggi di pecore. Dalton, all’apice dell’orgoglio irlandese, prosegue con gli aneddoti: “Quando James Connolly ha incontrato Lenin, ha notato che l’inglese parlato dal leader bolscevico era pesantemente sporcato dall’accento dublinese, per via di lezioni prese da un irlandese”. Sarà, ma non ci convince affatto. Sorridiamo e ci ricordiamo di quel meraviglioso murales proprio nel Bogside, indomito quartiere di Derry, con la faccia sorridente di Ernesto “Che” Guevara Lynch e sotto citate le parole del padre: “Nelle vene di mio figlio scorreva il sangue dei ribelli irlandesi”.
Ecco, questo spiega molte cose. Anche perché ci sentiamo a casa.
Nic & Fede
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