Diario da Cavezzo: storie di persone
Miriam è piccola piccola, ha finito quest’anno le superiori e se la guardi di sfuggita sembra ancora più giovane della sua età, ha dei capelli rossi schizzati per aria e la parlantina veloce di chi non le manda a dire. Quando arrivo a Cavezzo però è a lei che devo chiedere per “orientarmi un po” e siccome sono arrivate giusto quel giorno due sue amiche di Imola mi metto silenzioso ad ascoltare le spiegazioni che fornisce a loro. Miriam si occupa di tenere la lista d’attesa delle tende, dei materassi, dei ventilatori. Sembra banale ma è invece assai complicato: ogni giorno diverse persone chiedono di poter avere queste cose e la disponibilità ovviamente è minore delle richieste. Saper valutare lo stato di bisogno di ognuno, saper determinare le emergenze in una situazione che è tutta un’emergenza e saper avere il polso fermo di fronte ai furbetti che vorrebbero approfittarne non è cosa facile e Miriam si destreggia in tutto ciò con leggerezza e maestria. Era già stata in Abruzzo, non fa parte di partiti o collettivi (ma dice che tornando a casa non le dispiacerebbe fondare una Brigata di Solidarietà Attiva anche nella sua città…e Nives l’ascolta con gli occhi lucidi gongolante), ha però molto chiaro in testa il perchè è qui e non in un campo della Protezione Civile come volontaria e quando accoglie le sue amiche gli spiega “il metodo che adottiamo” come una veterana. Nonostante l’età non è per niente la mascotte. Chi arriva, anche di trenta o quarant’anni più anziano, si rivolge a lei considerandola un punto di riferimento. È partita ieri con grande dispiacere di tutti ma tornerà già settimana prossima “…vado a casa qualche giorno perchè ho la casa libera e me la godo un po, poi torno ma anche ad agosto vengo ancora…” […] Martedì siamo andati a cenare al “Palaverde”, una struttura sportiva privata che di fatto è stata “occupata” immediatamente dopo le scosse di terremoto e al momento ospita circa 80 persone che non hanno un altro posto dove andare. Ci invitano due amici magrebini, un ragazzo giovane e un signore cinquantenne. Mi trovo a mangiare in questi assurdi tendoni gonfiabili della Protezione Civile (dentro, causa area condizionata, fa un freddo pazzesco!) vicino ad Amed (nome di fantasia). Parla molto bene l’italiano, è a Cavezzo da più di vent’anni e dopo il terremoto ha mandato via sua moglie e la sua figlia di 12 anni in Germania, preso dei parenti, per paura di quello che poteva ancora succedere qui. Poi, quando le scosse sono proseguite e dai parenti non era più il caso di fermarsi le ha dovute mandare al suo paese d’origine. Lui però non s’è spostato “…io sono di qui e non mi muovo”. Mi racconta di casa sua, lui si ritiene fortunato perchè la sua casa non è andata distrutta e non è nemmeno dichiarata inagibile, il problema è che un altro edificio su cui si appoggia casa sua invece lo è e quindi non può rientrare nella sua abitazione. Ha paura, lui come il suo amico più giovane che ha la casa agibile ma non se la sente di rientrare, è preoccupato per il suo futuro e affronta con ansia e serenità al contempo il presente. E il lavoro? Amed ha ripreso a lavorare, il suo capo l’ha chiamato, gli ha detto che è il suo braccio destro e ha bisogno di lui e Amed è andato. Sono circa due mesi che ha ripreso a lavorare, serve darsi da fare perchè il posto dove lavora ambisce a prendere le certificazioni che attualmente non ha e che a breve diventeranno vincolanti per poter proseguire nell’attività produttiva. In questa situazione Amed racconta che anche il suo capo e al suo fianco e lavora con lui, gomito a gomito. Però…però Amed non è pagato, perchè la logica è che bisogna fare i sacrifici per rimettere in piedi l’azienda, altrimenti chiude e si rimane senza lavoro, e quindi non c’è nemmeno bisogno di dire che se Amed si rifiuta di andare…beh quando l’azienda riprenderà a lavorare ufficialmente non avrà bisogno di lui, è ovvio no? […] Angela chiama quasi tutti i giorni. È anziana, vive in una frazione vicino a Cavezzo ed è sola. La sua casa ha retto bene al terremoto e dopo un primo periodo in tenda ora sta pian piano tornando a vivere nelle sue stanze. Ha perso il marito per un cancro e la realtà è semplice: chi non ha retto al terremoto è lei. Ha conosciuto il campo delle Bsa da un po e alla fin fine lei, oggettivamente, non ha bisogno dei beni di prima necessità che al campo vengono distribuiti: ha bisogno di ascolto, di vicinanza, di poter parlare con qualcuno. Cioè ha bisogno esattamente di quel pezzo che differenzia il campo di Cavezzo da quelli della Protezione Civile: la parte umana, relazionale, la parte di autorganizzazione che significa mettere le persone e i loro bisogni al centro e non i meri calcoli statistici che i fornitori di servizi emergenziali di stato fanno solitamente.