Baby Reindeer, autopsia di una violenza

Non potevamo, nella nostra rubrica di recensioni, esimerci dal commentare una serie tv di grande successo che ha fatto molto parlare di sé: Baby Reindeer, letteralmente piccola renna. La serie, infatti, scritta e interpretata dallo sceneggiatore e attore scozzese Richard Gadd, pur non essendo stata in alcun modo “spinta” dalla piattaforma Netflix, grazie al passaparola tra utenti ha ricevuto una notevole attenzione dal pubblico scatenando sia polemiche che molte interessanti riflessioni.

La vicenda narrata, tratta da un’esperienza reale vissuta in prima persona da Gadd (e che ha scatenato un’ondata di voyeurismo social), parla dello stalking messo in atto da una donna nei confronti del protagonista, che sbarca il lunario come barista in un pub di Londra sperando, prima o poi, di fare successo come comico.

Tutto ha inizio quando, in una giornata come tante al lavoro dietro al bancone, Donny offre un famigerato tè a un’affranta cliente, Martha, per cercare di tirarle su il morale. Quello è il punto di inizio di una spirale in crescendo fatta di attaccamento patologico e molestie online, che poi dilagano nella vita reale trasformandosi in un vero e proprio calvario per il protagonista.

Il primo punto interessante è la narrazione dello stalking che capovolge il paradigma classico, trattando un tema di cui si parla poco: gli uomini vittime di persecuzione femminile, o, più in generale, le figure maschili “deboli”. Tuttavia, il quadro è costruito in modo tanto potente da permettere a chi guarda di riflettere sul tema dello stalking a prescindere dal sesso di chi attua o subisce la violenza, aiutando a comprendere lo stato di angoscia generato da questo genere di persecuzioni.

La serie ha infatti un’incredibile capacità di farci immedesimare nel protagonista, di farci arrabbiare, irritare, intristire per i suoi errori e le sue debolezze, che a noi appaiono così chiare e limpide (ma che poi, quando ci toccano in prima persona nella vita reale anche in misura meno tragica, non sono affatto così ovvie e risolvibili). Del resto, siamo tutti ottimi maestri con le vite degli altri…

Ad aiutare questa immedesimazione quasi immediata è l’incredibile qualità del percorso introspettivo del protagonista con un inarrestabile stream of consciousness che lascia l’osservatore quasi tramortito. Donny ha infatti una spietata consapevolezza di se stesso e fa a pezzi la propria psiche pezzo per pezzo, in un processo simile a quello di un’autopsia. Non c’è niente di peggio di essere consapevoli di se stessi e di quel che ci circonda, ma lasciar andare le cose così come vanno. Il protagonista, infatti, tende sempre a procrastinare le scelte più difficili e dolorose, preferendo vivere in una “dolorosa comfort zone” piuttosto che uscire dalle sabbie mobili di un male conosciuto per avviarsi verso un bene sconosciuto.

All’inizio non capiamo come mai Donny non allontani Martha pur rendendosi perfettamente conto di quello che sta succedendo. Poi, a un certo punto, come colpiti da un pugno in faccia, la verità si rivela. E in realtà è Martha la prima a comprenderla, con la sua profonda sensibilità manipolatoria. Donny è infatti stato vittima di una precedente, terribile e protratta violenza. E questa violenza subita, ma mai affrontata e anzi chiusa nella cassaforte della propria psiche, produce e produrrà degli effetti a catena che si perpetueranno nel tempo rischiando a volte di riprodursi. E qui emerge un altro elemento ricorrente in questo genere di violenze: mentre il mostro che ha distrutto Donny e la sua vita con le sue violenze ripetute, grazie al suo status sociale e alla sua “rispettabilità”, riesce a farla franca Martha, il cui reale stato sociale è basso e la cui “presentabilità” in società mediocre finirà in carcere.

Un ultimo punto decisamente forte della produzione è la resa in modo cristallino dell’incredibile capacità dei manipolatori di ribaltare la realtà rendendo la loro narrazione credibile: piccoli particolari insignificanti vengono portati al centro del discorso, mentre la massa della vera prevaricazione e violenza di cui sono autori è fatta scolorire come un aspetto secondario e di sfondo. Del resto, un mitomane è il primo a credere alle sue menzogne e questo lo rende quasi invincibile.

Qualche parola, per concludere, va spesa per Martha (interpretata dalla bravissima Jessica Gunning) che pur essendo giustamente considerata “la cattiva” della storia emerge come un essere umano carico di disagi e portatrice anch’essa di un passato non certo leggero e privo di sofferenza. E anche qui emerge nuovamente il tema di come la violenza subita, fisica o psichica poco importa, generi una vera e propria catena di nuove violenze difficile da spezzare.

Baby Reindeer è insomma un viaggio destabilizzante nella complessità delle relazioni tossiche e morbose con la loro infinità di zone grigie facilmente giudicabili fino a quando non ci si trova in mezzo.

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