Netflix e la glamourizzazione della violenza di genere
Questa estate un’amica mi ha chiesto di guardare “Sex/Life”, serie originale Netflix, allora settima in Italia secondo la classifica della piattaforma, spiegandomi che la storia rispecchiava molto quello che stava vivendo nella sua relazione. Contenta di poterla comprendere meglio e approfittando di qualche giorno a casa con l’influenza (giuro, influenza), l’ho terminata in poco tempo. E quindi? E quindi è una serie tv di merda, perciò eccoci qui.
La protagonista, Billie, ha quella che molti definirebbero “una vita bellissima”: un marito che è l’incarnazione del “bravo ragazzo” nel corpo di Ken, ha successo e ha persino un lavoro che contribuisce al benessere comune, due splendidi figli, una casa enorme. Dopo essere rimasta incita del primo figlio Billie ha lasciato il percorso di dottorato in psicologia e col secondo figlio ha deciso di prendersi del tempo dal lavoro per dedicarsi del tutto a fare la mamma. Questo però sembra non bastarle più, Billie si sente persa, le manca la sé del passato, appassionata di feste, concerti e sesso sfrenato. Le manca quell’adrenalina e le manca il sesso, che per lei rappresenta “il desiderio, sentirsi desiderati, ma anche la libertà di essere chiunque e fare qualsiasi cosa” 1. Ci viene proposta l’immagine di una donna che deve decidere se essere libera, dedicarsi ai propri piaceri e avere un lavoro che la appassiona oppure essere madre, restare a casa e perdere interamente la propria identità, inclusa la propria sessualità, per dedicarsi alla famiglia. Questo viene fatto non in un modo critico, che mostri quanto il passaggio alla maternità può essere complesso e quanto effettivamente molte donne siano costrette a fare questo tipo di scelta, schiacciate dal peso della responsabilità di crescere i figli posta interamente su di sé e dalle aspettative irraggiungibili di quella che deve essere una “madre perfetta”, ma viene rappresentato con una superficialità che rinforza una visione stereotipata di donna/madre.
Dunque quelle che sembrano le due uniche versioni possibili dell’essere donna sono incarnate da Billie e dalla sua migliore amica, verso cui infatti prova una certa invidia. Sasha ha fatto un percorso di vita diverso: ha continuato gli studi, insegna all’università, è single, frequenta locali notturni e ha molteplici avventure sessuali. Le due diventano quindi l’espressione della contrapposizione donna-madre e sembra impossibile conciliare i molteplici aspetti dell’essere donna.
Questa rappresentazione diventa nociva nel momento in cui è riflesso di una narrazione effettivamente presente nella realtà e dal momento che rimane la rappresentazione più diffusa della vita delle donne, andando quindi a rafforzare gli stereotipi già esistenti. Invece di cercare di scardinare l’immaginario comune e diffondere nuovi modelli, più positivi, in cui non solo le donne si possano ritrovare o a cui possano ispirarsi ma che permettano anche di superare l’idea che la maternità debba essere il fattore distruttivo della propria intera identità e femminilità, si continua a rafforzare un sistema che si scandalizza di fronte alle foto in intimo di una mamma (basti pensare al profilo instagram di Chiara Ferragni), che decide del futuro lavorativo delle donne in base alla possibilità che un giorno diventino madri (“Ha intenzione di fare figli?”), che pretende di sapere quali sono i desideri di ogni singola donna (“Ma sì, ora dici così perché sei giovane, vedrai che poi vorrai anche tu un bambino”)…insomma, the list goes on. Il problema sta proprio nella contrapposizione tra l’una o l’altra vita narrata come insuperabile: mamma che vive di sacrifici e perde sé stessa (Billie) o donna libera con una carriera brillante e una vita notturna movimentata (Sasha); contrapposizione che tra l’altro si riflette nel titolo stesso della serie tv: SEX, quindi libertà, desiderio / LIFE, la “vita vera”, fatta di dolore e sacrifici.
La cosa più grave però è la rappresentazione che viene fatta del (non) consenso durante l’intera serie tv. Billie in preda a questa crisi di identità continua a pensare al suo ex ragazzo Brad con cui ha avuto una relazione molto passionale che la rimanda alla vecchia sé, l’altra sé, quella libera, in primis dal punto di vista sessuale. Lui è il classico “cattivo ragazzo” che solo lei riesce a far innamorare e durante i flashback che raccontano la loro storia, ci sono numerose scene esplicite delle interazioni sessuali tra i due. Ciò che mi ha sconvolto è quanto queste interazioni siano impregnate di manipolazione e coercizione: il “no” di Billie non è mai preso seriamente. Quando si mostra esitante, il partner in questione riesce sempre a “convincerla” insistendo allo sfinito, spiegandole cosa lei vuole davvero; ad esempio nel secondo episodio le viene detto “Sai di volerlo” e poi “dì di sì” di fronte ad un rifiuto2, e ancora “Io credo che tu voglia dire sì”, in una scena Billie dice a Brad “Credo di voler tornare” e lui le risponde “No non vuoi”. Ma non è l’unica a cui il bad guy di turno non da ascolto: sempre nella seconda puntata Sasha gli spiega che non avranno più rapporti, lui insiste e dopo aver iniziato a baciarla lei dice “Dovresti andartene” ma ovviamente il suo volere non conta, così le risponde “Sicura?” procedendo a toccarla.
C’è una evidente e pericolosa romanticizzazione della violenza che viene narrata come la normale e addirittura ambita ed eccitante caccia alla preda. Dunque l’uomo insiste e fa pressioni fino allo sfinimento e la donna si aspetta di essere inseguita perché questo è ciò che in fondo desidera, in quanto dimostra che l’altro “la vuole davvero” e farà di tutto per lei. Questa è una narrazione assolutamente tossica e molto pericolosa che riflette gli stereotipati ruoli sessuali che assorbiamo fin da piccoli, i quali portano gli uomini a non accettare un no come risposta, perché la conquista della donna rappresenta la conferma e l’incarnazione della propria virilità, il modo per dimostrare (a sé stessi e agli altri) di essere un vero maschio, e spingono le donne ad accettare la violenza, essere schive, a non fidarsi della propria volontà ma anche a non dire mai un “sì” diretto, che sarebbe troppo volgare. Il tutto nella serie tv è velato da una patina glamour fatta di inquadrature studiate, luci neon, musica sensuale e sospiri pesanti che fanno passare questo tipo di dinamiche come elettrizzanti, per cui un occhio poco allenato non si accorge di quanto il telefilm rispecchi e rinforzi la cultura dello stupro3. Quando si parla di mancanza di consenso infatti si pensa spesso a dinamiche violente in cui un partner costringe l’altro con la forza a fare qualcosa che non vuole, il fatto è che esistono tante altre situazioni in cui il consenso non è esattamente costretto ma è comunque involontario. Come lo descrive Angela Chen nel suo libro 4, riprendendo il modello di Emily Nagoski 5, il consenso involontario è presente quando una persona partecipa all’interazione sessuale perché ha paura delle conseguenze nel dire no, quando spera che dicendo sì l’altro smetterà di importunarla o quando pensa che dicendo no lui o lei continuerà solamente a cercare di persuaderla. Fin troppe donne hanno familiarità con questo tipo di situazioni e finché non si inizierà a parlare seriamente di consenso e della complessità che caratterizza le interazioni sessuali, che vanno oltre ad un sì e un no espliciti, la violenza sessuale sulle donne continuerà ad essere normalizzata se non giustificata.
C’è una scena alla fine del primo episodio che mi ha colpito in particolare: il marito di Billie, Cooper, scopre una sorta di diario segreto sul computer di lei in cui descrive le passate interazioni con Brad, raccontando di quanto non sia soddisfatta dell’attuale vita sessuale; lui le prende il viso stringendolo con la mano e le dice “Allora chi cazzo sei tu?”, procede a baciarla energicamente, le chiede se è ciò che vuole, lei risponde di sì, così la gira iniziano a fare sesso mentre la tiene ferma. Ci sono due cose particolarmente preoccupanti in questa scena e il modo in cui avviene il rapporto non è di certo una di queste: innanzitutto il fatto che Cooper è evidentemente a disagio nelle modalità in cui sta avvenendo il rapporto, ma soprattutto quello che le dice in tono autorevole: “Tu sei mia Billie, sei tutta mia e non te lo dimenticare”. Questa frase rivela il significato di quel rapporto, che è un mezzo per Cooper di rimettere Billie al suo posto, ricordarle a chi appartiene.
Il sesso usato come mezzo di punizione non è una novità e rimanda al fine più primitivo dello stupro (anche se in questa scena non si assiste ad esso): rieducare quelle donne che osano auto determinarsi. Come ci ricorda Carlotta Vagnoli 6, ancora oggi l’augurio di stupro viene fatto proprio con questo scopo, basti pensare al caso di Carola Rackete, di Greta Thunberg o alle donne che lavorano in politica. Ovviamente nella serie tv anche questo comportamento passa come qualcosa di normale, non viene discusso e anzi l’unico commento a riguardo è quello di Billie che lo descrive come il sesso migliore avuto con Cooper 7, nonostante lo dica piangendo e benché nella scena successiva a quella descritta si trovi allo specchio mentre osserva con aria molto turbata la comparsa di un livido sul viso.
Ma allora perché una serie tv che ruota attorno a dinamiche tossiche e violente, in cui l’assenso a molti rapporti viene raggiunto tramite la coercizione, in cui c’è una chiara mancanza di comunicazione tra i partner (Billie non dice cosa vuole, Cooper non glielo chiede e cerca di diventare qualcuno che non è), ha avuto così tanto successo? Siamo davvero così “ossessionati dal sesso” da non accorgerci di tutto ciò, accecati dalle luci rosse?
Il problema non è che ci piaccia fare sesso ma che ci siamo allontanati troppo da una visione di esso come interazione che avviene tra due persone che hanno una volontà e dei desideri e che possono essere empatici l’uno con l’altro anche quando si incontrano senza impegno o non si vedranno mai più. Con la rivoluzione sessuale degli anni ’70 si metteva al centro dell’attenzione la donna, i suoi desideri, il suo piacere e si promuoveva l’amore libero mentre adesso “c’è il terrore di fare sesso come umani e non come porno attori di bassa categoria”(da un post instagram di Benedetta Lo Zito 8) ed il sesso è diventato il mezzo di molti uomini per affermare la propria virilità e di molte donne per essere validate dallo sguardo maschile, spinti dalle pressioni sociali dettate dal patriarcato, dall’allonormatività 9 e da una diffusa paura e disprezzo dei sentimenti.
Si parla infatti anche di coercizione non imposta dal partner ma proprio dalle aspettative sociali, per cui le persone non sanno che è possibile dire di no ad un’interazione sessuale e quindi in alcuni casi il loro consenso è in realtà involontario; la filosofa Miranda Fricker parla di “ingiustizia ermeneutica” che implica il non avere accesso alle informazioni necessarie per interpretare la propria esperienza: in molti non si rendono conto di fare sesso non per volere proprio ma spinti dalle pressioni della società.
Alla fine del telefilm Billie ha un’epifania e ammette a sé stessa che non vuole accontentarsi della sua nuova vita, anche dopo aver trovato dei compromessi col marito Cooper, narra quindi: “Ci sono molti desideri diversi, molti modi di essere femminile. Io davvero mi sveglio accanto a lui e sono felice, ma non è abbastanza. Non è quello che noi donne dovremmo volere, è l’io che dovremmo goderci finché siamo giovani e poi lasciarci alle spalle per diventare adulte responsabili. Dovremmo accettare l’idea di perdere parti di noi stesse lungo la strada, ma la vera libertà e il vero potere stanno nel dirlo ad alta voce, nel dichiarare noi stesse, far sapere i nostri veri desideri. Io voglio tutto e lo voglio adesso.”
Questa scena credo dovrebbe rappresentare il momento in cui finalmente Billie si autoafferma e sceglie sé stessa su tutto, alcuni potrebbero addirittura percepirla come femminista e proprio per questo essa è un chiaro esempio di pink washing: mostrarsi apparentemente solidali nei confronti delle donne e della loro emancipazione, con l’unico scopo di avere un ritorno di immagine e quindi economico. Con questa scena gli autori cercano di coprire tutte le problematicità incontrate nella serie tv (non a caso è la scena finale, che ricorderemo più facilmente) ma a me questo tentativo ricorda un po’ quello del mio vecchio liceo di tappare un grosso buco nel muro della palestra inchiodandoci il piano di un banco: il problema non è risolto e ne consegue un’immagine bizzarra.
Letizia Viganò
Note
1 parole di Billie, episodio 1×6.
2 Brad vuole che attraversino la galleria della metro mentre i treni sono attivi ma Billie non vuole.
3 una definizione della cultura dello stupro è: un contesto ambientale in cui lo stupro è endemico e all’interno del quale la violenza sessuale sulle donne è normalizzata e giustificata sia dai media che dalla cultura popolare. Essa viene perpetuata attraverso l’uso di un linguaggio misogino, la riduzione del corpo femminile a oggetto e la glamourizzazione della violenza sessuale, costruendo in questo modo una società che non ha alcun rispetto per i diritti e la sicurezza delle donne (dal libro “Gli uomini mi spiegano le cose” di Rebecca Solnit).
4 Angela Chen è una giornalista e scrittrice, il libro in questione è “ACE: What Asexuality Reveals About Desire, Society, and the Meaning of Sex”.
5 Emily Nagosky è un’educatrice sessuale, ricercatrice e scrittrice.
6 Carlotta Vagnoli è una sex columnist, attivista, content creator e scrittrice.
7 episodio 1×2.
8 Benedetta Lo Zito è un’autrice, attivista e fondatrice del progetto Suns-end rape culture, il post in questione è stato pubblicato sul suo profilo instagram @bendettalozito il 4/09/2019.
9 L’allonormatività è l’assunzione condivisa che tutti sperimentino attrazione sessuale. Va a braccetto con l’aspettarsi che tutti siano sessualmente attivi, che facciano sesso in un certo modo, che siano alla costante ricerca di esso…
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