Piazza Fontana, una strage lunga mezzo secolo
Un percorso di letture intorno all’attentato del 12 dicembre del 1969, a cinquant’anni dai fatti. Il ruolo dei neofascisti, le complicità istituzionali, i vuoti della giustizia.
«Non so come ma ho la certezza che con la strage di pochi giorni fa, l’orrendo coro dei giornali e questo assassinio del Pinelli, è davvero finita un’età, cominciata ai primi del decennio. È possibile il silenzio degli uomini, dell’opinione, i difensori dello stato di diritto? Sì, è possibile. La paura è veloce». L’aveva capito bene, Franco Fortini che la bomba scoppiata il 12 dicembre del 1969 nella Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano non aveva lasciato dietro di sé solo un tragico bilancio di vittime – 17 morti e 88 feriti – ma anche uno snodo per molti versi fondamentale della storia del Paese. Si apriva un’epoca nuova, dove la paura e lo smarrimento, evocati da Fortini nel raccontare i funerali di Giuseppe Pinelli, «suicidato» da una finestra della Questura di Milano a pochi giorni dalla strage, si sarebbero progressivamente intrecciati al desiderio che si facesse piena luce su quanto accaduto, sui responsabili come sui mandanti. Perché verità e giustizia spazzassero via la coltre di bugie, macchinazioni e depistaggi che fin da subito accompagnò, e ne fu parte integrante, la «strategia della tensione» perseguita con le bombe.
A cinquant’anni dai fatti, di fronte ad una verità emersa sul piano storico, ma mai fino in fondo sancita su quello giudiziario, si pone la necessità di riannodare i fili della memoria per far capire, specie ai più giovani, cosa accadde davvero e quale eredità quelle vicende consegnino al presente. Un tentativo che accomuna, pur tra linguaggi e impostazioni diverse, molte delle opere pubblicate in vista dell’anniversario di Piazza Fontana.
Così, l’approccio del gruppo di storici e ricercatori che ha firmato il volume Dopo le bombe (Mimesis, pp. 232, euro 18) interroga in modo esplicito «l’uso» o meglio «l’abuso pubblico di questa storia» che «hanno contribuito in parte a rendere la cosiddetta Prima Repubblica una massa informe e un grande punto di domanda, sia nelle verità ufficiali prodotte dallo Stato, sia nella (mancata) pedagogia pubblica». Si tratta, in altre parole, di tornare ad analizzare la specificità dello stragismo fascista e di Stato, spesso confuso con altri fenomeni, perlopiù successivi, sotto la comune etichetta di «anni di piombo» o di «notte della Repubblica». In questo senso, sono tre gli elementi, tra i molti presi in esame, che in Dopo le bombe possono essere ripresi. Il primo, affrontato da Aldo Giannuli e Elio Catania, riguarda «la pista atlantica» e la dimensione europea, e occidentale, entro cui la strage fu pensata e portata a termine.
È infatti all’ombra di una nuova definizione strategica, detta della «guerra rivoluzionaria», sviluppatasi inizialmente tra i militari francesi alle prese con il tramonto dell’età coloniale in Indocina come in Algeria, e che diverrà poi «dottrina militare ufficiale dell’Alleanza Atlantica» che per far fronte con ogni mezzo ad una crescita dei comunisti, delle sinistre e dei movimenti sociali anche in Europa, si sceglierà di fare ricorso al terrore indiscriminato, alle ipotesi golpiste, alle stragi. Stabilendo su questa via un’interlocuzione privilegiata con la destra neofascista e neonazista: che nel nostro Paese condurrà al ruolo di primo piano giocato in particolare da Ordine Nuovo nella strage di Milano.
A questo primo elemento si aggiunge il ruolo che in tale strategia assunsero i diversi apparati dello Stato, talvolta descritti come «deviati», ma in realtà ben consapevoli degli esiti dei percorsi intrapresi. Davide Conti analizza così «annunci e timori di una strage», spiegando, a partire dalle pagine del cosiddetto «Memoriale» di Aldo Moro e dalle dichiarazioni rese da Paolo Emilio Taviani, più volte ministro dell’Interno, di fronte alla Commissione Stragi, come non solo il Sid (i servizi segreti) e i Paesi della Nato fossero «interessati a una “normalizzazione” della situazione italiana scossa, nei suoi equilibri di fondo, dall’autunno caldo», ma come gli apparati di sicurezza sarebbero stati in grado di poter impartire «un contrordine» per impedire la strage, anche in virtù dell’esistenza di «una catena di comando (…) diretta tra servizi segreti e terroristi».
E’ alla «contro-narrazione neofascista» dell’intera strategia della tensione che dedica invece il proprio intervento Elia Rosati. Un fenomeno che ha riguardato sia i gruppi più esposti all’epoca, il già citato Ordine Nuovo come Avanguardia Nazionale, che lo stesso Msi, nel quale, inseguiti dalle inchieste sulle bombe, rientrarono rapidamente gli ex ordinovisti. In realtà, scrive Rosati, «le strette connessioni della comunità di destino della destra e il sogno di partecipare in prima fila alla costruzione di un’Italia più autoritaria e distante dall’eredità civile e costituzionale della Resistenza spinsero tutta la famiglia neofascista italiana ad arruolarsi fiduciosa».
In seguito, però, le responsabilità di cui si erano macchiati i neofascisti saranno derubricate in questi medesimi ambienti come una sorta di «complotto» messo in atto dal «sistema» contro di loro. Una rimozione, quando non aperta negazione della realtà, che non riguarderà solo la stagione dei processi, ma che stende la propria ombra fino alla storia recente. Ancora alla fine degli anni Novanta il leader di An, partito erede dell’Msi, Gianfranco Fini, ammetterà come per quelle vicende avesse svolto un ruolo «la manovalanza arruolata nella destra estrema», ma ridurrà il tutto a «nichilismo ideologico frutto di allucinazione culturale», senza alcun «progetto»: l’esatto contrario della volontaria partecipazione alla crociata anticomunista, e antidemocratica, che quelle bombe intendevano promuovere.
Perché la strage di Piazza Fontana, come quelle che la annunciarono e la seguirono sui treni, nelle piazze, nelle stazioni, intendeva arrestare un processo di cambiamento comunque in atto. Come sottolineano Maurizio Dianese e Gianfranco Bettin ne La strage degli innocenti (Feltrinelli, pp. 256, euro 17) , «si è parlato spesso di perdita dell’innocenza, a proposito di Piazza Fontana». Se si intende «riferirsi ai giovani che allora stavano esprimendo la prima forma di impegno politico e civile di massa (…) che era anche una presa di consapevolezza della posizione sociale delle nuove generazioni nel loro rapporto con le altre classi (…) certamente è vero che, di fronte all’orrore del 12 dicembre, l’ingenuità per molti se ne è andata, bruciata nell’esplosione e nelle fiamme di quel giorno». Perciò, «fine dell’ingenuità, sì. Ma non certo dell’innocenza, se si allude a una qualche innocenza del sistema, del Paese, della storia italiana». Anche perché il 12 dicembre racconta pure della risposta che la strategia del terrore trovò fin da subito. Come testimonia quanto scritto all’epoca da Giorgio Bocca e riproposto oggi da Dianese e Bettin. «La mattina stessa dei funerali (delle vittime, ndr), con quella piazza, quelle strade gremite di operai, di studenti, di popolani, la Milano e l’Italia democratica hanno la certezza che la democrazia tiene e che comunque non si accetterà in silenzio una politica decisa sopra le nostre teste».
La storia di Piazza Fontana è perciò talmente intrecciata con quella del Paese da continuare ad interrogarne la coscienza civile, spesso anche a partire dalla memoria individuale.
Lo indica con chiarezza l’esperienza del giudice Guido Salvini che negli anni Novanta ha condotto le indagini poi confluite nel terzo processo per la strage – chiusosi nel 2005 con una sentenza della Cassazione che pur riconoscendo la responsabilità in quei fatti dei militanti veneti di Ordine Nuovo assolse anche gli ultimi imputati ad eccezione di Carlo Digilio, l’artificiere del gruppo, la cui pena sarà però prescritta -, ma che ricorda ancora con precisione come inventò una scusa, «un pomeriggio di studio da un amico», per partecipare da adolescente ai funerali di Pinelli. In La maledizione di Piazza Fontana (Chiarelettere, pp. 614, euro 22) Salvini spiega come «ci sono storie che non si staccano, che ti seguono ovunque e non ti lasciano più. Piazza Fontana per me è una di queste, un’ombra, un pensiero di sottofondo. Ti occupi d’altro, ma ci ritorni sempre». Il libro, scritto con il giornalista Andrea Sceresini, dà conto del lungo lavoro compiuto dall’allora giudice istruttore di Milano per far luce sulle responsabilità dei neofascisti, ma indica anche quanti elementi e possibili testimonianze siano emerse in seguito, facendo ulteriore luce sulla vicenda. La «maledizione» di cui parla Salvini sta proprio in questa impossibilità di fissare definitivamente una verità già emersa, malgrado tutto, in tanti anni di indagini e contro-inchieste. Dopo la sentenza della Cassazione, il giudice ha continuato il suo lavoro di ricerca, «da cittadino e studioso», fino ad affermare che «se un nuovo processo venisse celebrato oggi, sommando quello che è emerso in tutti i processi e gli elementi contenuti in questo libro, è probabile che i responsabili della strage avrebbero tutti o quasi un nome».
La ricerca della verità non interroga solo gli strumenti della giustizia, ma anche le forme attraverso le quali la memoria del Paese si è andata sedimentando. Una riflessione che attraversa La bomba. Cinquant’anni di Piazza Fontana (Feltrinelli, pp. 296, euro 18), nel quale Enrico Deaglio ricostruisce in un racconto drammaticamente appassionante la vicenda della strage ma anche il modo in cui l’opinione pubblica si è misurata con tutto ciò. «La bomba del 12 dicembre 1969 ha cambiato l’Italia; o meglio l’ha picchiata come un pezzo di ferro rovente su un’incudine, umiliata. Per cinquant’anni, tutta la vasta cospirazione di potere che l’ha prodotta ha lavorato per lei, perché restasse impunita e si moltiplicasse. È una storia talmente enorme che non si sa da che parte cominciare», ammette Deaglio prima di ammonire i propri lettori che, di fronte a «quanta protervia, quanta volgarità venne usata per costruire il falso» sulla strage, finiranno per pensare che «gli attuali demagoghi non hanno inventato niente, anzi che Piazza Fontana è stata il loro modello».
Anche Deaglio, al pari di Salvini, fu sorpreso, studente, dalla bomba, «ci sono cresciuto, l’ho respirata per cinquant’anni» e, attraverso quella vicenda, sembra ricostruire nella sua inchiesta, quasi una contro-narrazione del percorso seguito dal Paese. Perciò, non deve stupire che tra i molti elementi, personaggi e fatti che La bomba racconta, ve ne sia uno, apparentemente secondario, che ben illustra ciò che l’Italia avrebbe potuto, e può ancora, apprendere della propria Storia. Si tratta di un ricordo che Piero Scaramucci aveva già incluso in Una storia quasi soltanto mia, il suo libro intervista a Licia Pinelli, uscito nel 2009 e riproposto ora da Feltrinelli. Il produttore cinematografico Carlo Ponti vide sul giornale la foto della finestra da cui era precipitato Pinelli e si rese conto che quell’edificio, prima di diventare la sede della Questura, aveva ospitato il suo collegio. Turbato, volle conoscere Licia Pinelli. L’idea era quella di realizzare un film dedicato alla figura dell’anarchico ingiustamente accusato della strage e morto mentre si trovava in stato di fermo. Per il progetto Ponti contattò Giuliano Montaldo che aveva appena girato Sacco e Vanzetti, mentre per la parte della moglie di Pinelli si pensava a Sophia Loren. «Dopo l’uccisione del commissario Calabresi, il produttore abbandonò il progetto. Peccato – scrive Deaglio – quel film avrebbe dato coraggio all’Italia». E c’è da credere che, a cinquant’anni dalla strage, di Piazza Fontana nessuno avrebbe anche solo potuto fingere di dimenticarsi.
di Guido Caldiron
da il Manifesto dell’1 dicembre 2019
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