Sognare la Comune di Parigi guardando in dvd Matrix
Sognare la Comune di Parigi guardando in dvd Matrix.
Una recensione di “Non esiste la rivoluzione infelice. Il comunismo della destituzione”
E’ sempre interessante leggere quello che esce a sinistra sul potere destituente; ti spinge a riflettere su alcune tue certezze ideologiche o abitudini: così è stato con l’ultimo testo (in italiano) del noto filone teorico/militante che, da quasi due decenni, sta provando, partendo da una rilettura francese di Agamben, a riscrivere la grammatica della prassi rivoluzionaria.
Il riferimento è ovviamente all’ultima fatica editoriale di Marcello Tarì, (M. Tarì, Non esiste la
rivoluzione infelice. Il comunismo della destituzione, Derive a Approdi, 2017).
Lo dico subito: è un libro da leggere e discutere; lo dico chiaro: è un libro che non mi piace perché
si ostina caparbiamente a produrre troppo fumo e poco arrosto.
Il testo è secco, curato e iconoclasta, anche se mi sarei aspettato maggiore originalità rispetto al
dibattito francese: risulta sicuramente molto più colto dei lavori simili, ma purtroppo si perdono
alcuni interessanti spunti sui ruoli di potere (tipici dell’antologia la Comunità terribile 2003).
Si trovano invece passaggi stuzzicanti quando si parla di nuove tecnologia e dominio (un tema solo
accennato in L’insurrezione che viene, in Italia 2007).
Parrebbe invece che questo libro voglia collocarsi idealmente prima di Premières mesures
révolutionnaires (2013), anche per aprire un dibattito in Italia dove, è esplicitamente detto,
l’egemonia del pensiero post-operaista nel movimento costituisce un limite alla circolazione di
queste suggestioni.
Tarì confeziona un pamphlet dall’indiscutibile gusto filosofico/letterario (anche se dal bulimico
numero di brevi citazioni), che punta direttamente ad impressionare, permettendosi però il lusso di dare la linea senza mai accettare di metterla a verifica.
Ci si trova davanti 250 pagine dannunziane, “ingovernabili”, che vogliono arruolare più che spiegare, sviluppando un pensiero in grado (da solo) di illuminare e far evolvere “spiritualmente” il lettore, tramite “la diserzione individuale e la disciplina collettiva dell’esodo combattente”.
L’impressione che se ne ha, però, è di essere catapultati nel primo episodio di Matrix dei Wachowski, nonostante seducenti “strade dall’odore acre, in quel cielo che porta con sé il fumo nero che si alza sui tetti dei palazzi di cristallo”.
L’intera sintassi di Non esiste la rivoluzione infelice è decisamente 2.0: capitoletti brevi (adatti agli
schermi smartphone), massime taglienti e veloci (da twitter), frasi guerriere (perfette per post
facebook incendiari e saccenti il giorno prima di un corteo), collage di riots (in puro stile Youtube);
stilisticamente tanto di cappello!
Forse se n’è accorto anche l’editore scegliendo per il libro un formato pocket; ideale per i bagagli a
mano di giovani militanti Easyjet o per le piccole tasche di un k-way rubato alla Decathlon.
Neo: “Non sono venuto qui a dirvi come andrà a finire, sono venuto a dirvi come comincerà. […] Mosterò loro un mondo senza di voi, un mondo senza regole e controlli, senza frontiere e confini.Un mondo in cui tutto è possibile. Quello che accadrà dopo dipenderà da voi e da loro”.
Tuttavia un dato “per quanto possa risultare scomodo, è difficilmente contestabile”: questo
fascinoso filone di pensiero rappresenta oggi una delle narrazioni più lette nel mondo giovanile
dell’antagonismo europeo.
L’autore, poi, ricorda bene quanto la creazione di immaginari (la mitopoiesi si sarebbe detto una
volta) sia un pezzo importante di un agire ribelle, soprattutto in tempi di formidabili dispositivi
linguistici avversari.
Del resto, spiace dirlo, nonostante i movimenti italiani abbiano saputo produrre in passato
fondamentali innovazioni, oggi la necessità di creare un rapporto dialettico tra conflitti e immaginari è scomparsa dall’agenda di troppi di noi; questo testo lo sa bene e utilizza, non a caso, con originalità gli studi sul mito di Furio Jesi.
Le pagine di Marcello Tarì vanno quindi lette criticamente ma con rispetto, soprattutto perché,
seppur sacralizzandole, parlano di cose che da qualche anno vediamo succedere a latere di grandi
eventi di piazza, anche se mai (non a caso) nella quotidianità delle lotte.
Tuttavia rispetto alle recenti entusiastiche pagine di A nos amis, questo saggio guerriero è pervaso
da una paradossale ottimistica-tristezza; l’autore sa bene che dovrà rispondere ad una
fondamentale domanda: spento il fuoco delle barricate, perchè delle rivolte (sempre destituenti)
non resta nulla?
Il libro rilancia ottimisticamente, ma sostanzialmente negando la questione, nell’ottica di
“organizzare il pessimismo” del misero ambiente sovversivo e nella certezza che praticare lo scontro
(riallacciando “il nesso tra verità realtà”) faccia sorgere quasi automaticamente dalle ceneri di
ciascuno sfruttato dei nietzschiani oltreuomini, “spiritualmente rivoluzionari” nuovi bolscevichi
(“Novi Byt”).
Come se l’importante non sia vincere ma, in fondo, partecipare (alla battaglia).
Tank: “Allora cosa vi serve, a parte un miracolo?” Neo: “Armi. Tante armi!”
Il libro comincia con una prima incrollabile (auto)assoluzione, riassumibile in un: se le
Comuni/insurrezioni falliscono non è mai colpa dei comunardi, ma sempre di chi nel movimento
rema contro; come quando nella neonata Unione Sovietica il (“costituente”) legislatore staliniano
Vishisnsky liquidò il (“destitente”) vero bolscevico Pasukanis.
Dunque una volta compilata una minuziosa lista di compagni/traditori (movimentisti da “Seconda
Internazionale” che vogliono solo “partecipare, da sinistra, al Governo Imperiale”) e riformisti
(spacciatori di diritti sociali cioè “surrogato del comunismo”), il libro si tuffa nel fuoco della guerra.
Non esiste la rivoluzione infelice celebra la potenza dello “sciopero destituente”: “l’occupazione, il
riot, la barricata come una sola, sincronica, sequenza […] che porta come suo sfondo la Comune
cioè l’ambito materiale e spirituale nel quale può iscriversi una forma di vita destituente”.
Ne consegue un verboso ma in fondo semplicistico Che fare (valido sempre e ovunque): se il
Capitalismo oggi “dimora” (solo) nelle sue infrastrutture allora “bloccare i flussi” risulta vincente,
perché crea una “interruzione” che produce, da sola, cambiamento (“non v’è luogo […] in campagna e in città, in montagna e in riva al mare che non venga raggiunto da quei flussi che, perciò, possono essere solamente interrotti”).
Dunque la prassi vivente rivoluzionaria (in cui Insurrezione e Comune sono indistinguibili) non può
mai essere scissa da una trasformazione simultanea interna (a chi vi partecipa) ed esterna (le
relazioni che vi nascono), andando a rompere quel “nesso diabolico che nel capitalismo
contemporaneo si istituisce tra un territorio, l’abitare e la proprietà privata” e permettendo “la
presa del mondo e la sua modifica”.
Infatti centrale nel libro è il significato sovversivo di “abitare” (figlio di colte etimologie di Nomos e
Territorium) inteso non come dato spazio/temporale, ma come mutata “forma di vita” che
comporta esistere felicemente, con “l’entusiasmo del bambino” e “l’ebrezza” di “vivere il
comunismo qui ed ora”.
Morpheus: “Ci sono campi sterminati dove gli uomini non nascono, vengono raccolti”
In quest’ottica, ogni contesto può essere teatro di una insurrezione/interruzione ugualmente
determinante e centrale (“da Roma ad Atene, da Rennes a Barcellona, da New York a Chiomonte,
dal Cairo a San Cristobal de las Casas”), mentre il Capitale smette di essere un modo di produzione
storicamente dato (dalla complessa e mutevole organizzazione) ma diventa un Matrix omogeneo
che sfrutta e produce valore solo grazie ai suoi non specificati flussi.
Ne viene fuori un mondo in cui si combatte (e non si lotta) contro un Potere (senza gerarchie o
articolazioni) che rende una cosa unica Governo-Produzione-Beni-Controllo, ma che, di fondo, si
materializza solo in merce e polizia.
In questo scenario i conflitti di tutti i soggetti particolari (dal precario al migrante) sono specificità
dannose (“false maschere sociali”) che impediscono di “diffondere e organizzare tutte le pratiche di
destituzione che sono disseminate ovunque: nel lavoro e nelle relazioni, nell’amicizia e nel pensiero,nell’abitare e nel combattere, nell’amore e nell’arte”.
Mentre rivendicare reddito o salario, analizzando le concrete dinamiche dello sfruttamento, è
definito sprezzantemente o come “orrido calcolo economico” da socialdemocrazia, oppure come
pensiero di una sinistra che “disprezza l’aspetto etico-esistenziale” per “fa dipendere tutto dalla
Grande Struttura della Produzione”.
Neo: “Cosa cechi di dirmi? che posso schivare le pallottole?”
Morpheus: “No Neo! Cerco solo di dirti che quando sarai pronto, non ne avrai bisogno”.
Ma se “l’Economia politica lascia il posto alla Cibernetica”, la cosa che più piacerà di questo libro è
il suo saltare da un angolo all’altro del globo e della storia, in un mordi e fuggi in cui ogni Thomas
Anderson si è, unendosi alla resistenza, trasformato in Neo con una molotov in mano.
Si corre quindi, “seguendo “la costellazione rossa che collega tra loro Benjamin, Kafka e Brecht”,
vertiginosamente in giro per le rivolte (insurrezioni) del “mondo-metropoli”: dai cortei del Loi Travail in Francia (2016) ai blocchi stradali nell’argentina anteprima della crisi (2001-2002), dai fuochi delle Banlieues agli Anabattisti , da Kronštadt ai quartieri di Oakland, dalla Comune di Parigi (1871) alla Libera Repubblica della Maddalena (2011).
Tutte gli episodi sono inseriti in una unica genealogia (destituente) senza tempo (figlia però di
semplici assonanze parastoriche), che usa come ponte immagini poetiche: in primis di Pierpaolo
Pasolini, ma anche di Heiner Müller, di Viktor Sklovskij, del guru libertario statunitense Joshua
Clover, del freikorps Ernst Jünger e di molti altri.
Marx, Tronti, Guattari, Rosa Luxemburg vengono solo citati in pillole, senza mai scendere nella
complessità delle loro analisi preferendo più “la magia naturale di Giordano Bruno che l’ingegneria
sociale”; solo Foucault è usato in modo più puntuale.
La palestra rivoluzionaria (il vero dojo dove Morpheus allena Neo) resta l’Argentina degli anni ’00,
dove le interessanti tesi del Collettivo Situationes diventano solo un piccolo libretto rosso.
La stessa complessità degli anni ’70 italiani è resa una unica rivolta punk/no future (“l’asignificanza programmatica del ’77”), mentre nel ricordo del NoG8 di Rostock del 2007 non ci sono campagne e strade bloccate (per la prima volta in Nord-Europa) da decine di migliaia di persone, ma solo campeggi autonomi autodifesi dalla polizia.
Tutto è inserito in un permanente scontro tra governi e “ingovernabili”, “occidentali” e “primitivi”,
“metropoli” e “oasi combattenti”, velocità del Capitale e auflockerung (“allentamento”), “tempo
storico” e “tempo messianico”, polizia e “tribù”: “un unico sciopero globale”, insurrezione che viene
sempre e quindi, in fondo, non arriva mai.
Protagonista assoluto: un esercito ribelle che si vorrebbe imprevedibile, astuto e multiforme, ma
che in realtà rispetta alla lettera sempre lo stesso identico copione, a cominciare dal look.
Sull’altro fronte le truppe nemiche con cui la coraggiosa “avanguardia interna alla classe
rivoluzionaria” (etichettata da giornalisti/“araldi” del potere come “casseurs, teppisti, autonomi o
blocco nero”) combatterà all’ultimo sangue, “seguendo le regole asimmetriche della guerriglia
formulate da Lawrance Arabia”.
Tutto ciò non perché la polizia rappresenti un impedimento “tra noi e il potere” (un cane da guardia, banalizzando), ma perché è giusto in sé e per sé, per eliminare “l’ebrezza del potere”, prendere a pugni l’Agente Smith.
Di fondo, nel magmatico mondo di Non esiste la rivoluzione infelice il Matrix/Capitale non è messo
in difficoltà dal “controproducente radicamento” (sociale o territoriale) dei conflitti, da chi si mette
in movimento per rispondere a bisogni, dal superato contropotere caro all’operaismo o da soggetti
che lottano per la trasformazione della propria condizione economica, ma da chi combatte secondo
il motto “Tout le monde déteste la police!”.
Che delusione! Dopo aver scomodato “le passioni rivoluzionarie dalle linee destituenti in Lenin e Bakunin, in San Paolo e Ulrike Meinhof, in Rimbaud e Mao Tse Tung “, trovarsi solo a giocare a
guardie e ladri.
ER
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