I quadri grigi, le luci gialle ed i cortei, Milano son contento che ci sei
Abbiamo letto, come tanti, gli articoli che sono usciti su “Il Manifesto” e “Internazionale” in cui si scatta una foto crudele e per certi aspetti realistica della fase dei movimenti in questa città.
Ma a differenza dei tanti commenti “beh in effetti sotto sotto…” che leggiamo in giro siamo anche un po’ indispettiti. Non tanto per un cieco amore nei confronti di Milano o perché toccati nel vivo e impermalositi, ma perché ci piacerebbe un po’ di onestà intellettuale da parte chi racconta la nostra città da un punto di vista esterno, alle sue lotte o ai suoi confini, sempre capace di attribuire ad altri o a misteriosi meccanismi inevitabili i difetti che vengono sottolineati.
Noi, consapevoli delle nostre contraddizioni, non possiamo non notare che il fatto che i centri sociali siano da mettere in discussione nella forma e nella capacità di produrre immaginari (la mitopoiesi!) è un tema aperto da una ventina di anni in questa città, facciamo diciannove così siamo più chiari. Che, come si scrive su Internazionale (a dire il vero con alcuni parallelismi veramente tirati per i capelli) un processo di sussunzione abbia travolto buona parte della produzione autonoma e dell’innovazione sociale è una novità tutta arancione.
Più della malinconia dei “conflitti degli anni ’90” o dell’invidia per altri luoghi (siano essi la Grecia, la Spagna o la Francia) sarebbe utile leggere come i cambiamenti globali e della città abbiano influito su tutto ciò.
I movimenti hanno perso a Genova, hanno perso nel tentativo di bloccare la guerra nel 2003, non sono stati in grado di organizzare una difesa collettiva degli spazi, hanno visto approvare una riforma universitaria pessima nonostante mobilitazioni ampissime e fantasiose e, infine, sono stati esautorati come soggetto in grado di organizzare il precariato verso delle rivendicazioni collettive.
Abbiamo perso, lo riconosciamo, ma non siamo sconfitti perché in tutte le situazioni la parte “vincente” ha dovuto mettere in campo un mutamento mostruoso: il più eclatante è stato spararci in faccia e torturarci a Genova, ma non meno significativi sono stati i processi di isolamento ai quali siamo stati, spesso preventivamente, condannati. E non siamo sconfitti perché in quelle mobilitazioni siamo cresciute, ci siamo riappropriati delle città e delle piazze, abbiamo stretto relazioni che attraversano tutto il paese, e non solo, e abbiamo tenuto viva la possibilità di immaginare alternative.
Poi c’è Milano, città abbacinata dall’arancionismo cinque anni fa, che si è risvegliata progressivamente in una vita quotidiana fatta prima di sgomberi e poi di spugnette. Dove la risposta alla precarizzazione di centinaia di migliaia di vite è stata accelerare e startuppare qualche centinaio di Archimede Pitagorici, inventori innovativi di invenzioni inventate. Qua non ci siamo proprio, al di là di essere dentro un sistema sociale che non esplode solo per l’esistenza di un welfare familistico di supporto a tutte le fasce più giovani, a livello di politiche lavorative stiamo proprio scambiando la sociologia con la politica: il “soggetto in sé” e cioè qualche centinaio (ma se vogliamo anche qualche migliaio non ci cambia niente) di “creativi”, repressi durante le giunte di destra, con “il soggetto per sé” cioè la necessità di costruire nuove alleanze e nuove forme solidali tra i lavoratori atomizzati dal processo finito di precarizzazione. Si tratta di riconoscere, sempre e di nuovo, che nessuno si salva da solo e che dalla precarietà e dallo sfruttamento si esce insieme, oppure si è sempre pronti a ricaderci o a generane di nuovo.
Milano è diventata più bella, anche grazie a tutto questo innovare, sappiamo vederlo anche noi, ma solo per chi se la può permettere: la socialità, in questa città, rimane legata alle possibilità di spesa, ai locali e allo shopping, le cancellate intorno ai parchi, che avrebbero dovuto cadere per immaginare nuovi modi di attraversare gli spazi pubblici, rimangono ben salde al loro posto, ben integrate in un retorica che ha sostituito l’insicurezza con il degrado, ma che propone sempre la stessa soluzione di ordine ed esclusione. E non si tratta solo di nostalgia per i bei tempi andati fatti di trani e di pic nic in Vetra, ma di saper vedere che questa città è abitata da persone diverse, con esigenze diverse, punti di partenza e strumenti diversi, le cui condizioni materiali stridono con la retorica della città perfetta, che somma esclusione ad esclusione.
A tutti questi che stanno sparando sul movimento, bersaglio lo ammettiamo abbastanza facile, abbiamo alcune cose da dire.
Anzitutto: viva i centri sociali! Che siano Zam o il Lambretta, Macao o il Leoncavallo, Rimake o Piano Terra, la Rimaflow o il Cantiere. Perché esistono, producono quotidianamente, grazie a centinaia di ragazzi e ragazze che ritagliano volontariamente spazi di tempo a una vita già precaria di suo e lo fanno mossi solo da altruismo, passione politica e cuore. Quando Bisio in TV, in piena campagna elettorale, cinque anni fa nominò l’innominabile dicendo “i centri sociali sono una cosa bellissima” eravate tutti d’accordo e balzanti sul carro, vi assicuriamo che le persone non sono cambiate così tanto.
In secondo luogo il presente è mutevole e un filo difficile da leggere, le condizioni per cui non è nata una Syriza o una Podemos (ammesso e non concesso che sia utile avere un soggetto simile) oppure non c’è una contestazione radicale come in Francia forse vanno al di là dell’”imborghesimento delle lotte” e dovrebbero interessare vari settori della sinistra, non solo i centri sociali.
Terzo, come fuoco sotto la cenere, anche se non vi par vero, qualcosa si muove e forse basterebbe provare a guardarlo per uscire da quell’immobilismo che tanto si critica. Certo, si tratta di un movimento multiforme che va dalle difficili incursioni in tema di diritti ai percorsi reali contro le grandi filiere distributive (che siano editoriali, di cibo, di tecnologia o altro), alle lotte per la casa, dove solo pochi, ormai, osano spingersi oltre il legalismo più rigido, alle battaglie per una libertà che parta dal genere, che riescono a essere intersezionali proprio contro l’uso strumentale dei diritti civili in nome di una normalità borghese, fino, ancora più delicato e difficile, alla relazione con i soggetti migranti. Il tentativo faticoso di dare delle ancore di sostegno e di messa in moto di una coscienza comune passa anche da queste sacche di resistenza che sono i centri sociali, dove queste lotte spesso si incrociano: forse non sono ancora diventate un soggetto, ma negarle non fa che rafforzare quel deserto che si vorrebbe veder fiorire.
Guarderemo qualche cadavere passare nelle prossime elezioni, poi l’estate, poi il referendum. Con l’autunno, comunque vada, attorno al monolite democristiano di Renzi investiranno i loro quattro soldi quelli che sono già pronti a costruire un’opzione politica conservatrice, razzista, violenta. Se ci sarà anche un’altra moneta da spendere solidale, inclusiva, che si preoccupi di portare diritti ovunque sarà compito di tutti metterci qualche cent.