Siamo tutt* disinvolte! Presidio al Tribunale di Milano – 29 settembre
Martedì 29 Settembre ore 18,30
Davanti al Tribunale di Milano
Presidio pubblico
“Siamo tutt* disinvolte”
#NonUnaDiMeno
Apprendiamo dai giornali che è stata ridotta in appello la pena all’uomo che, la notte dell’8 giugno 2019 aveva insultato e inveito contro la convivente alla quale «imputava tradimenti con uomini conosciuti su Facebook».
La minaccia di morte, le punta un coltello al viso, le strappa di mano il telefonino, la percuote con un tavolino di legno, la prende a pugni al viso e all’occhio sinistro mentre lei urla «ti prego fermati», la schiaffeggia a mano aperta, le assesta altri pugni al mento e alla schiena «così forti da farle mancare il fiato», la trascina per i capelli e la getta sul letto. Lei lo implora di lasciarla andare, lui le risponde «di qua non esci viva», lei lo supplica di non violentarla, ma lui la aggredisce, imponendole atti sessuali.
Per questi reati l’uomo era stato condannato dal Tribunale di Monza in rito abbreviato a 5 anni, che alla Corte d’appello di Milano ha abbassato a 4 anni e 4 mesi.
Più della limatura di pena, ciò che risalta è la motivazione: l’idea che, in un «contesto familiare degradato» e «caratterizzato da anomalie quali le relazioni della donna con altri uomini», l’intensità del dolo di quei tre reati sia attenuata dal fatto che l’uomo «mite» fosse stato «esasperato dalla condotta troppo disinvolta della donna», condotta «che aveva passivamente subìto sino a quel momento».
La Corte, quindi, prende in considerazione le abitudini sessuali della donna. Non solo, le etichetta ritenendo che donassero disvalore alla relazione con l’uomo, al punto da considerarla un’anomalia capace di degradarne il contesto familiare. Su questo, la Corte ha costruito il quadro all’interno del quale meglio comprendere la reazione dell’uomo definendola “esasperata”.
Non viene considerato solo il comportamento dell’aggressore, ma è giudicato anche quello della vittima, ritendendo che egli possa essere stato spinto da quest’ultima.
I Giudici hanno di nuovo commesso l’errore di arrivare a giudicare la vittima, la sua vita, le sue abitudini e i suoi comportamenti facendole ulteriore violenza, producendo una narrazione tossica di questo caso attraverso una sentenza che ancora una volta dimostra quanto serva educare a riconoscere la violenza, a chi interviene nel contrasto alla violenza maschile sulle donne e le discriminazioni di genere.
Ancora una volta si è creata la dicotomia fra l’atteggiamento dell’aggressore e il comportamento della vittima, come se il primo trovasse necessariamente giustificazione nel secondo.
Purtroppo questa dinamica è frequente nei ragionamenti che animano le sentenze.
Molto spesso a finire sui banchi degli imputati sono le donne che subiscono violenza: si chiama violenza giudiziaria e noi la combattiamo.
Inoltre, l’aggressore è definito “soggetto mite” considerato il comportamento tenuto all’interno dell’istituto di pena, sempre collaborante e partecipativo. Come se non bastasse il motivo che lo aveva portato in carcere, cioè la condotta perpetrata ai danni della moglie. Condotta che, in molti modi si può definire fuorchè mite.
Lei “disinvolta”, lui “soggetto mite”. E allora saremo tutte disinvolte!!!
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