Afghanistan: “Enduring Caos”

afghanistan10di Chiara Loda

 

Obama l’ha appena annunciato: più di trentamila soldati si ritireranno a breve. Questo conferma quanto il presidente aveva già detto nel 2011: nel 2014 la responsabilità per il mantenimento della sicurezza sarebbe passata in toto agli afghani. Non perché la situazione fosse talmente splendida da non richiedere aiuto alcuno; Obama infatti, nel discorso in cui annunciava il disimpegno, aveva candidamente dichiarato che non era pensabile pattugliare in eterno montagne lontane quando la situazione economica statunitense gridava pietà. Gli studiosi di Afghanistan, insieme a tutte le persone che hanno lavorato e vissuto lì per un periodo più o meno lungo, ritengono questa scelta deleteria già nel breve periodo.

Se a Kabul, che è comunque flagellata da continui attentati, vi è una parvenza di ordine e controllo, questo è dovuto alle ingentissime spese delle potenze straniere volte a fornire sicurezza almeno nelle zone centrali, soprattutto in quelle dove risiedono gli stranieri. Le ambasciate occidentali sono delle piccole fortezze, protette da torrette e guardie armate; molti operatori internazionali vivono in quella che alcuni hanno definito una bolla irreale, caratterizzata da ristoranti ben forniti di alcolici e centri estetici dove una ceretta costa l’equivalente del salario settimanale di molti afghani.

Nel resto del paese la situazione è molto meno rosea: i vari gruppi di insorti sono presenti un po’ ovunque ed anche a meno di cento chilometri da Kabul hanno stabilito in diverse regioni una specie di “governi paralleli de facto”, dove le truppe afghane o internazionali non entrano e gli insorti esercitano prerogative di governo. Un esempio di ciò sono i tribunali paralleli che, a insindacabile giudizio di mullah combattenti, si occupano di ladri e adultere in rigida ottemperanza delle leggi della sharia. La stra-maggioranza degli esperti di Afghanistan è convinta che, una volta conclusosi il ritiro internazionale e spentisi i riflettori sul paese, i vari gruppuscoli di insorti non ci metterebbero molto a imporsi in gran parte delle zone rurali e semi-urbane. La cosa non avrebbe ripercussioni solo sul destino di molti afghani, che non è esattamente in cima alla lista delle preoccupazioni di “quelli che decidono”, ma avrebbe un impatto fortemente destabilizzante in tutta la regione centro- asiatica. L’occidente ha già imparato a sue spese quanto queste polveriere internazionali siano pericolose e imprevedibili.

Tornando al ragionamento di Obama, ossia che il suo compito principale non è quello di pattugliare le strade Afghane ma di pensare al declinante benessere dei suoi concittadini, questo fa più di una piega. La drammatica situazione di sicurezza nel paese è imputabile, in gran parte, a scelte fatte dall’amministrazione Bush nelle immediate fasi del post-conflitto.

Per capire quello che è successo dobbiamo tornare alla fine del 2001, quando furono cacciati i talebani a seguito del lancio dell’ operazione “Enduring Freedom”. Le operazioni sul campo non erano state condotte dagli americani, che si occupavano pressochè esclusivamente delle operazioni aeree, ma dai mujaheddin dell’alleanza del nord. Questi erano vecchie conoscenze nel panorama afghano: erano emersi negli anni ottanta, durante la resistenza sovietica, quando un po’ dai campi profughi in Pakistan un po’ dalle montagne a nord del paese si erano organizzati in gruppi armati per condurre azioni contro i russi. Quando l’armata rossa nell’89 aveva alzato le tende e abbandonato il paese, i mujaheddin avevano combattuto il nuovo governo e nel ’92 avevano dato vita ad un governo di coalizione; tale assetto aveva avuto vita breve. Anche per via delle ingerenze dei paesi circostanti (Pakistan in primis) presto era scoppiata una guerra civile e le vare fazioni si erano combattute aspramente per tutto il paese fino al ’96, anno di instaurazione dell’emirato talebano. Con i talebani gran parte del paese era stata pacificata al prezzo di lapidazioni, arti amputati ed amenità varie; l’undici settembre aveva cambiato le carte in tavola ed eliminarli era improvvisamente diventata una priorità a livello internazionale.

I talebani erano assolutamente deprecabili, ignari della più basilare idea di diritti umani e libertà individuali, ma i signori della guerra che li avevano combattuti non erano certo dei cavalieri senza macchia e senza paura. Nella loro decennale attività avevano organizzato incredibili business basati su corruzione massiccia e traffico di stupefacenti. Negli anni della guerra civile (1992- 1996) , mentre si combattevano a vicenda, avevano ucciso solo a Kabul decine e decine di migliaia di persone; prima dell’avvento dell’emirato talebano (e in parte anche dopo) il paese era diviso in feudi retti ciascuno da un signore della guerra. Costoro, forti di eserciti privati e giri di mazzette varie, controllavano il territorio e si davano al profittevole commercio di armi e oppio. Avevano avuto vita più dura con l’avvento del Mullah Omar (anche se non facevano certo la fame) ma, dopo il lancio dell’Operazione “Enduring Freedom”, avevano ricevuto consistenti finanziamenti e rifornimenti di armi.

La storia già lo aveva insegnato: armare guerriglieri perché conducano guerre per procura è estremamente pericoloso. I talebani, insieme ad altri gruppi combattenti di ispirazione jihadistica, probabilmente non sarebbero esistiti se, negli anni ’80, non si fosse deciso di foraggiare guerriglieri islamici contro l’esercito sovietico. Per vincere una battaglia sul fronte della guerra fredda si era arato il terreno per quella che sarebbe passata alla storia come (usando le parole di Bush) guerra globale al terrorismo.

Non contenti della sonora lezione, nel 2001 si decise di affidare ai signori della guerra il compito di cacciare i talebani. Questi ultimi furono effettivamente combattuti anche se in molti casi (come quello di Bin Laden e Mullah Omar), invece che catturarli, si lasciò che scappassero nelle aree tribali del Pakistan. In ogni caso, l’amministrazione Bush era estremamente soddisfatta del loro operato: senza praticamente inviare soldati americani sul campo si poteva gridare, in meno di due mesi, “missione compiuta”.

Se a questo mondo nulla è gratis, immaginate se i signori della guerra avrebbero mai accettato di combattere i talebani senza averne una contropartita. Alle negoziazioni (che ebbero luogo in Germania nel dicembre 2001), i diplomatici internazionali ottennero che la presidenza venisse data ad Hamid Karzai (che non era un signore della guerra, anche se aveva forti legami con alcuni di loro) ma i ministeri chiave, a partire dalla difesa, vennero affidati a vari capi di milizia. La gente che, soprattutto nelle zone urbane, aveva accolto con favore l’intervento straniero, si sentiva fortemente disillusa: si erano cacciati i talebani per mettere al governo, opportunamente rivestiti, quei personaggi violenti e corrotti che per decenni avevano devastato il paese.

I vari signori della guerra, ben insediati nei loro ministeri, non avevano certo interesse a rinunciare ai loro eserciti privati. Per il Pentagono non era (apparentemente) un male: tutte queste milizie vennero messe in libro paga CIA e venne loro affidato il compito di condurre la maggioranza delle operazioni anti-terrorismo. Nel 2002 furono dispiegate nel paese meno di 10.000 truppe americane. Ovviamente, a parte qualche solenne stretta di mano a Kabul, le vecchie pratiche di corruzione e i traffici illegali andavano avanti.

Sarebbe scorretto dire che, così facendo, si sostituirono i talebani con i vecchi signori della guerra. La realtà afghana non è certo uno scacchiere su cui si fronteggiano bianchi e neri ma una complicata rete di relazioni familiari e tribali. Molti talebani della prima ora si tagliarono la barba e fecero ritorno ai loro villaggi, molti altri scapparono nelle aree tribali del Pakistan, dove ebbero modo di raggrupparsi e fortificarsi nuovamente. Presto fu chiaro ad alcuni analisti che la situazione era estremamente precaria ma ciò non turbò l’amministrazione Bush che, almeno fino al 2006 (anno in cui gli attacchi dei neo-talebani raggiunsero proporzioni massicce), parlò dell’Afghanistan come di una storia di successo. Il Pentagono probabilmente sperava nella cosiddetta “botte piena e moglie ubriaca”: investire pochi soldi e uomini (da impiegare in Iraq) nel teatro afghano e allo stesso tempo stabilizzare magicamente un paese dove si combatteva da circa 30 anni. I limiti di questa logica miope sono sotto gli occhi di tutti.

Nel 2008 il neo-presidente Obama cercò di cambiare la situazione aumentando sensibilmente il numero delle truppe americane sul campo ma ormai il danno era fatto: i neo-talebani si erano ricompattati in Pakistan, erano tornati nel paese e la loro presenza era capillare; inoltre la gente era estremamente sfiduciata verso gli occidentali. Venne elaborata una nuova strategia militare (che ebbe alcuni successi) che mirava proprio alla riconquista del favore della gente ma presto si capì che, perché questa fosse veramente efficace, avrebbe richiesto un impegno spropositato in termini di tempo, uomini e denaro. Da qui l’idea della “road-map” del disimpegno.

E così si chiude il cerchio. A breve le truppe occidentali lasceranno il paese. Lo scenario è fosco, l’Afghanistan sembra una polveriera pronta ad esplodere: solo tra qualche anno sapremo le conseguenze su scala globale di questa disastrosa spedizione.

 

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