Aggiornamenti dal Mali
“Negli ultimi giorni tanti giornalisti, anche italiani, presenti nella capitale maliana. Purtroppo però la quasi totalità è obbligata a rimanervi per problemi di sicurezza.
Della guerra in corso non ci arrivano immagini, né video, né testimonianze della popolazione civile. Ottenere un permesso per recarsi al nord è cosa molto ardua, sono necessarie autorizzazioni ministeriali e, anche con queste, non è certa la possibilità di lasciare la città.
In realtà, poche immagini ci arrivano da qualche giornalista al seguito delle truppe francesi, ma sono tutte relative a località del Sud Mali, dove i francesi si sono stanziati.
Alberto, un amico che vive e lavora qui a Bamako, ha accompagnato proprio uno di questi giornalisti nuovi arrivati in un campo di sfollati. Qui sotto il suo racconto:
“Tra le altre cose, abbiamo visitato un campo che accoglie famiglie di profughi dal nord. E’ stata un’esperienza molto toccante. Sentire dalla viva voce da uomini e donne che hanno vissuto la sofferenza e sono dovute scappare, lasciando averi e affetti, mi ha fatto molto riflettere. In particolare, siamo stati nel campo profughi del Centro Cristiano di Niamanà, quartiere alle porte di Bamako, che accoglie un centinaio di famiglie provenienti da Gao e Tombouctou.
Veniamo accolti dal sacerdote che gestisce il campo, la parrocchia e le poche terre che lo contornano. “Benvenuti”, ci dice padre Robert, un sacerdote vestito con abiti civili. Chiediamo il permesso di entrare, di potere incontrare delle famiglie di sfollati. “Siamo contenti di avere la possibilità di raccontare il nostro accaduto. Per noi è molto importante” continua il sacerdote, anche lui profugo a Bamako e proveniente da Gao. “Oggi il campo è un po’ vuoto però. Si è sposata la figlia di un nostro parrocchiano e siamo tutti stati invitati alla cerimonia” conclude con un sorriso.
Lo stato generale del campo è buono. Credevo di trovare una situazione più drammatica. Il sacerdote però ci dice che “ora trovate quasi tutto in ordine, ma i giorni subito dopo l’occupazione del nord da parte dei jihadisti qui era tutto in confusione. Sono arrivate centinaia di famiglie e non c’era spazio nelle camere. Molte hanno passato diverse notti “all’aria aperta”. Le famiglie nel campo hanno a disposizione una camera con doccia e l’accesso ai servizi igienici comuni. Una fontana nella zona centrale assicura l’acqua per tutti. Le donne si occupano della cura dei terreni limitrofi, della vendita dei prodotti e gli uomini di piccoli lavori di manutenzione alle case e alla piccola chiesa del campo.
Incontriamo due famiglie. Della prima è presente il padre Ibrahim e i quattro figli. Umile, un figlio in braccio, ci accoglie felice e con piacere inizia il suo racconto:
“Io sono un cristiano di Timbouctou. Sono scappato otto mesi fa, quando sono arrivati i primi ribelli del Mujao ed hanno imposto la Sharia (…) Dopo aver camminato per 25 km con altre famiglie, siamo saliti su una barca e con quella siamo arrivati a Mopti, poi in bus qui a Bamako. Siamo stati accolti dalla popolazione, ma stavamo male, dieci persone in una piccola cameretta (…) L’Arcivescovo di Bamako ci ha dato la possibilità di stare qui e lo ringraziamo”.
Ibrahim non capisce il perché di questa guerra e punta il dito soprattutto contro il Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad.
“Loro sono Tuareg come me, perché ci hanno fatto questo? Perché hanno dato inizio a questa guerra? Sono entrati a Timbouctou, hanno rubato ed incendiato i negozi, creato il panico tra la popolazione e messo in ginocchio l’economia (…) Penso a chi è rimasto al nord e che non ha i mezzi per scappare da questa triste e difficile situazione”.
Drissa e la sua famiglia provengono invece da Gao. “Benvenuti amici miei” e ci invita a entrare nella sua piccola casa temporanea. Letti a castello e tappeti dove dormono i suoi otto figli. La moglie è fuori a far il bucato.
“Noi siamo scappati ad aprile e siamo venuti a Bamako. Siamo stati inizialmente accolti in un campo profughi in centro città, ma non stavamo bene, e allora siamo venuti qui (…) Questo conflitto non finirà presto purtroppo, ma io sono pronto a rientrare anche domani nella mia città, se il governo avrà di nuovo il controllo. Ho lasciato amici e parenti e pensarli a soffrire mi fa molto male (…) Raccontare ciò che è successo è necessario, sono felice che ci sia gente, anche all’estero, che ci ascolti e ci aiuti” conclude Drissa
Lasciamo il campo verso pranzo, salutati da molti bambini e dai loro genitori, gente che, perso tutto, ha ancora voglia di vivere e speranza per il futuro.”