Ayiti cheri (Haiti, chérie)

Sono arrivata di notte, dopo un viaggio infinito con breve scalo in un’isola paradisiaca, il furto di tutti i miei averi e molta curiosità per quel posto di cui avevo tanto sentito parlare, sconvolto da una tragedia nella tragedia: un’epidemia di colera dopo il terremoto.
L’aeroporto era piccolo, il caldo soffocante, aumentato dalla calca di gente, che gridando e sgomitando vendeva oggetti, aspettava persone, offriva taxi, frutta, passaggi in macchina.
Girando la testa da dentro la macchina che mi aveva appena prelevato, leggevo su muri semi distrutti e su cumuli di macerie insulti in creolo (il dialetto locale, un francese storpiato e reinterpretato dall’epoca del colonialismo e degli schiavi), diretti alle ONG e alle Nazioni Unite, accusate di aver portato povertà, malattie e sfruttamento in un paese già messo in ginocchio dai bianchi fin dai tempi della sua creazione…..
Benvenuta ad Haiti, chérie!
Era passato un anno esatto dal terremoto che, il 12 gennaio 2010 (esattamente due anni fa) rase letteralmente al suolo la più grande bidonville dell’America caraibica, Port Au Prince, capitale di Haiti, causando dai 200 ai 300 mila morti, e centinaia di migliaia di sfollati.
La popolazione, già poverissima (lo stato Haitiano si distingueva già per corruzione, disinvestimento nella produzione locale, mancanza di rispetto per l’ambiente e per i diritti umani) fu ovviamente messa in ginocchio, in termini di perdita sia di vite umane che di quel poco che avevano (case, scuole, strutture sanitarie).
Non potevano certo immaginare, benché provenissero da un passato coloniale e di schiavismo di Stati Uniti e Francia (mai, di fatto, conclusosi), che il peggio doveva ancora iniziare.
Già, perché il terremoto di Haiti fu mediatizzato come pochi eventi in precedenza, muovendo i cuori, le “coscienze” e le tasche di molti, troppi: da Sean Penn a Scientology, dalle parrocchie di provincia italiane ai governi di Chavez e Cuba….tutti hanno voluto fare parte del grande circo che ha invaso l’isola da poche settimane dopo l’evento e che tuttora la pervade.
Perché tanto sforzo, in buona o in cattiva fede, non ha portato i risultati attesi? Perché oggi, a due anni dal terremoto, parliamo ancora di 600.000 sfollati senza tetto, di popolazioni intere che vivono di aiuti d’emergenza (che di fatto intralciano il rilancio di qualsiasi economia locale) e soprattutto di una ricostruzione che o va davvero a rilento, o, di fatto, viene ostacolata?
E soprattutto, come è possibile che in una città con la presenza di centinaia di ONG e associazioni internazionali umanitarie, solo il 2 % della popolazione disponga di acqua potabile non infetta per i propri bisogni primari? Troppo poco, se consideriamo che l’epidemia di colera (una malattia gastro intestinale causata dall’acqua infetta e dalla contaminazione di cibo, acqua e corpi umani dovute alla mancanza di adeguati sistemi fognari e idrici) ha già causato più di 7.000 morti e continua, ogni giorno, a uccidere.

Il primo motivo sostanziale è sicuramente la corruzione. Haiti, già in mano alle gang e ai signori della guerra (cartelli della droga e delle armi, punto di smercio tra Colombia e Stati Uniti), che coinvolgevano in profondità la politica nazionale e locale, era già in una situazione di forte ingestibilità. Tanto che, nel 2004, fu creata la MINUSTAH (missione Onu di mantenimento dell’ordine), forza multinazionale che avrebbe dovuto fare fronte all’incapacità del governo locale di gestire  conflitti tra gang, infiltrazioni mafiose, violenza.
Come spesso succede, queste missioni, invece che migliorare la situazione, finiscono per entrare fino al collo negli stessi sistemi che, sulla carta, dovrebbero contrastare: ecco che la MINUSTAH diviene in breve tempo una delle parti in guerra (non auguro a nessuno di trovarsi in mezzo a un suo pattugliamento in una zona “calda”), contribuendo, di fatto, ad ulteriore instabilità e conflitto.

Questo complesso sistema (fomentato, ovviamente, da illegalità diffusa, clientelismo e mafia),  hanno reso difficile l’organizzazione della ricostruzione e degli interventi umanitari del post terremoto: davanti all’emergenza e ai soldi che arrivano a palate, i mercati che si aprono, i giornalisti disposti a pagare oro tutto quello che c’è, i business derivanti dalla presenza straniera e la quasi totale assenza di controllo (connaturata alle situazioni di emergenza) come credete che si siano comportate le autorità locali a tutti i livelli?

Un altro aspetto che trovo importante è la struttura informale della città.
Immaginate una grande favela, che di colpo si sbriciola come un pacchetto di crackers: come si fa a ricostruire qualche cosa che già, aveva connaturato in sé precarietà, pericolo e insalubrità e che, soprattutto, era stato fatto illegalmente e in modo informale? Ricostruire Port Au Prince in modo “sano” oggi, vorrebbe dire spazzare via una città e farne una da capo, in cui potrebbe vivere, probabilmente, meno della metà della gente. Questo per i motivi di folle urbanizzazione, che ho già analizzato in un post precedente (https://milanoinmovimento.com/rubriche/mondinmovimento/la-trappola-dellurbanizzazione-a-tutti-i-costi ).
Chi si prenderebbe mai la responsabilità di ricostruire una bomba a orologeria, illegale e pericolosa per la vita della gente (la gravità del terremoto è stata anche dovuta alla conformazione della città, costruita in modo ammassato su colline precedentemente disboscate e in zone non edificabili)? E dall’altro lato, chi si prenderebbe in carico di decidere quale metà della popolazione urbana verrebbe inclusa in una città “a misura d’uomo” (e dunque costruita con criterio e non sovraffollata) e quale no? Purtroppo convertire i meccanismi di abbandono delle campagne verso le città è molto difficile, senza piani a lungo termine e investimenti sull’agricoltura, fatti dai governi locali.
Scelgo un ultimo elemento su cui fare riflettere i lettori: la dannosità dell’aiuto umanitario a tutti i costi. Il caso di Haiti (come quello dello Tsunami nel 2005) ci deve insegnare che il troppo aiuto “a tutti i costi”, mosso quasi sempre dagli interessi delle stese agenzie (quando un evento “tira” sui media e i soldi piovono per quello, in quello bisogna spendere..) fa spesso più danni che benefici. In molti paesi dove già ci sono deboli strutture politiche, situazioni caotiche di illegalità, corruzione e poco investimento sullo sviluppo e sulla popolazione, innescare meccanismi di dipendenza dagli aiuti di emergenza non può che affossare qualsiasi miglioramento strutturale a livello politico.
Il caso di Haiti, uno stato già assolutamente assoggettato alle importazioni (tanto da non produrre più nulla, a scapito della propria popolazione, pur di diventare la “spazzatura” degli USA), alla dipendenza politica legata agli affari illegali con l’Occidente, e a forti ingerenze esterne, è stato completamente e definitivamente devastato dai meccanismi di dipendenza ed invasione causati da una cosi massiccia e cosi lunga presenza delle ONG internazionali e dei loro governi.
Il caso di Haiti, più unico che raro nell’evidente fallimento dell’aiuto umanitario internazionale, dovrebbe servire da lezione per le prossime emergenze: emergenze che le agenzie, con il loro carico di personale, risorse, intenzioni, effetti e interessi non fanno altro che aspettare, per lasciare quella che un tempo era chiamata “la perla dei Caraibi”, ormai spolpata da un passato-presente di colonialismo e sfruttamento, per dirigersi, avidamente, verso altre destinazioni.

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Una risposta a “Ayiti cheri (Haiti, chérie)”

  1. […] perché l’urgano Sandy a New York ha fatto tanta paura, mentre nessuno ha pensato ad Haiti, paese, tra l’altro, già flagellato non solo dal terremoto del 2010, ma anche dal colera del […]

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