Beirut, torna la paura

Foto di Mahmoud Zayat AFP/ Getty images

La città di Beirut, capitale del Libano, riporta alla mente di molte persone la guerra civile che ha sconvolto il Paese per vent’anni,  l’occupazione delle forze israeliane e la guerra tra i due Paesi, scenari di raffiche di mitra e immagini di edifici sventrati.

 Dopo la fine dell’occupazione israeliana del 2000, il Libano ha vissuto un periodo di relativa stabilità e calma, accompagnata da una crescita economica: molti libanesi, che componevano una delle più grandi popolazioni del mondo emigrate all’estero (diaspora), hanno fatto dunque ritorno in patria, sperando di poter ricominciare a vivere nel proprio Paese, dal quale erano fuggiti a causa della violenza, delle uccisioni e del pericolo.

 Sono bastati tuttavia pochi anni per rendersi conto che il Paese dei cedri non aveva affatto superato quel passato doloroso fatto di debolezza istituzionale, ingerenze internazionali e trappole geo-politiche regionali che ne avevano decretato la distruzione: l’attentato di pochi giorni fa nel pieno centro della capitale libanese ne è l’ennesima, straziante, conferma.

 L’attentato di venerdì 19 ottobre 2012 ha colpito la zona della sede del Katayeb (partito falangista, rappresentante dei maroniti cristiani), sede di quegli stessi apparati militari che, poco più di un anno fa, avevano smascherato una rete di servizi segreti siriani in Libano, che pianificavano attentati.

 Il partito falangista in Libano è noto soprattutto per il suo ruolo ambiguo e collaborazionista durante l’invasione israeliana degli anni 80 e soprattutto per il suo ruolo di copertura delle violenze atroci nella strage di Sabra e Chatila. La stessa strage era stata “giustificata” dall’omicidio di Bachir Gemayel, allora presidente, che si era opposto alla presenza armata palestinese sul territorio: il suo omicidio fu addebitato ai servizi segreti siriani, che dopo molti anni di occupazione erano parte attiva del conflitto che coinvolgeva anche OLP, israeliani, maroniti (di cui lui stesso era un esponente), per il controllo del Libano.

 Bachir Gemayel non è stato che il primo di una lunga serie di attentati presumibilmente di matrice siriana in territorio libanese: nel 2005 è stato il turno dell’amato capo del governo Rafik Hariri (sunnita), poi del giornalista filo occidentale Samir Kassir, nel 2008 è stato invece il nipote di Gemayel (anch’egli attivo nel partito falangista) a finire trucidato in pieno giorno, in mezzo a una strada. Il 2008 è stato un anno ricco di attentati in luoghi pubblici, autobombe e avvertimenti: in media una notte su due veniva squarciata dalle esplosioni, spesso nei quartieri cristiani, davanti a obiettivi sensibili, come centri commerciali, negozi o luoghi di ritrovo. In uno di questi attentati si sfiorò la strage, avendo colpito, una domenica pomeriggio di primavera, uno storico caffè vicino al lungomare, gremito di gente.

 Dal 2008 al 2012 il Libano si è di nuovo ritrovato in una fase di apparente calma: nessuno credeva più però, che il passato potesse essere stato di nuovo superato. La debolezza delle istituzioni, la corruzione dilagante e il perpetrarsi di dinamiche di controllo politico sono infatti così lampanti da aver fatto perdere la fiducia a molti libanesi, molti dei quali sono di nuovo emigrati all’estero.

 L’attentato di venerdì scorso ricalca le dinamiche del passato, già viste: stavolta però, con uno scenario internazionale e regionale ancor più fragile, vista la situazione in Siria, che già da molti mesi ha trascinato il confinante Libano nel suo conflitto (nella città libanese di Tripoli si fronteggiano da mesi oppositori e sostenitori di Assad).

L’indipendenza, e dunque la pace nel Paese dei cedri è ancora molto lontana.

 

 

Per approfondire:

http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/10/20/autobomba-a-beirut-avvertimento-a-chi/388160/

http://www.sirialibano.com/short-news/la-mafia-uccide-anche-a-beirut.html

 

 

 

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