Di diaspore, saluti e aeroporti….

Ho sempre trovato un’esperienza unica e forte l’osservazione degli arrivi all’International Airport Rafik Hariri di Beirut.

L’aeroporto in questione infatti, che prende il nome dal Primo Ministro ucciso in un’attentato nel 2005, è spesso teatro di un fenomeno interessante e sconosciuto per noi italiani: la diaspora.

La popolazione libanese residente nel paese é di circa 4 milioni e mezzo: la popolazione emigrata conta invcece circa 18 milioni di persone, la maggior parte delle quali lasciarono il paese a partire dal 1975, data di inizio della guerra civile che ha insanguinato il paese per 15 anni.

Le mete di immigrazione dei libanesi sono varie: al primo posto c’è il Brasile, ma anche la Francia, gli Stati Uniti, e diversi paesi dell’Africa e del Golfo.

I libanesi all’estero sono noti per essere delle comunità chiuse, spesso conservatrici, dedite agli affari e alle rimesse, i cui proventi derivano da attività non sempre etiche ( si veda il commercio dei diamanti in molti paesi dell’Africa dell’ovest): in generale, sono comunità chiuse in loro stesse, indissolubilmente legate tra loro e al loro paese di origine, fenomeno che é tipico delle migrazioni di massa (similmente agli italiani degli anni 30 in Germania).

I fenomeni di “ritorno” sono recenti, e fortemente minoritari rispetto al numero di persone che invece, si stabilisce nei paesi di immigrazione, costruendo una nuova vita, una famiglia e un progetto permanente.

Tuttora moltissimi giovani libanesi lasciano il paese: la quasi totalità dei miei amici coetanei, almeno metà dei quali nati all’estero e rientrati in Libano dopo il 2000 (fine dell’occupazione israeliana), si trovano ora altrove alla ricerca di lavoro o di fortuna, vista la durezza della crisi economica e l’instabilità politica del loro paese natale.

Mi sono trovata spesso all’areporto, e la scena era sempre la stessa: un membro della famiglia tornava in visita, spesso portando con sé i bambini nati nei paesi di immigrazione che, per la prima volta, si trovano a conoscere i nonni. Oppure famiglie che si ritrovavano dopo anni, che si rivedevano cambiate, magari in occasione di qualche evento. O coppie che si incontravano dopo tempo, magari per sposarsi. Ricordo dopo la guerra del 2006, quando tanti libanesi della diaspora tornavano per ricongiungersi con le proprio famiglie, dopo quel mese di angoscia e di bombardamenti.

Anche sull’aereo il clima era sempre quello di un “ritorno”: ho ascoltato tante storie, conosciuto bambini nati in Europa, famiglie divise, ho visto la loro faccia e l’emozione al momento dell’atterraggio dell’aereo nel loro paese di origine, che chissà da quanto tempo non rivedevano. Tornavano a casa.

Più di una volta mi sono ritrovata come una scema ad asciugarmi una lacrima nel vedere queste scene di ricongiugimento familiare: non sono riuscita a restare indifferente davanti a un’intera famiglia che immaginavo avesse fatto chilometri per venire ad accogliere il ritorno di una figlia, un bambino, o un marito, un nipote, dopo anni di lontananza. Vederli sciogliersi in un pianto collettivo e in un abbraccio é sempre stata una scena emozionante, che più di una volta mi ha commosso, soprattutto conoscendo la cultura libanese, profondamente mediterranea e dunque fondata sulla famiglia e sui legami di sangue e sociali ad essa legati.

Il Libano é e rimane un paese di migranti, in fuga dalla guerra e dalle assurdità della politica internazionale: ancor più assurdo se si pensa che é un paese che rifiuta qualsiasi politica sull’immigrazione, e che tratta le persone a loro volta in fuga da altri paesi come schiavi e come esseri inferiori, rinnegando cosi’ un aspetto forte della propria storia ed identità.

Il Libano é un paese piccolo, abitato da gente che sta più fuori che dentro i suoi fragili confini; un paese capace di far sperimentare anche agli stranieri come me cosa voglia dire la diaspora, la nostalgia, la lontananza, e non solo per averla vista in aeroporto, ma anche per averla vissuta sulla propria pelle, e per il fatto di portarla sempre con sé, come un tatuaggio.

 

 

 

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Una risposta a “Di diaspore, saluti e aeroporti….”

  1. gastarbeiter ha detto:

    giusto per precisare, di italiani emigrati in germania negli anni 30 ce ne sono stati pochi, dal 43 al 45 furono deportati, l’emigrazione di massa avvenne a inizio 60

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