Cooperazione: effetti collaterali

Premessa per i lettori “non tecnici”: dicesi COOPERANTE quella persona che, generalmente in giovane età (ma non sempre) parte per un’esperienza professionale all’estero (nei Paesi in via di Sviluppo: Africa, Asia, America Latina, Balcani o Medio Oriente) attraverso un progetto di una Organizzazione Non Governativa (ONG). Gli incarichi durano in genere dai 6 mesi ai due anni.

Nel corso di queste esperienze si vivono le situazioni più disparate e inaspettate, ma quello che ho scelto di raccontare in questo articolo é quallo che succede ai cooperanti stessi o che si vede succedere agli altri cooperanti che si incontrano nel corso delle missioni.

Come é comprensibile, quei personaggi che lasciano casa, famiglie e una (più o meno lunga) vita per partire da soli, spesso per anni, negli angoli più disparati della terra, soffrono di una molteplicità di malattie e di sindromi.

Proprio come nelle vere epidemie, nessuno ammette mai di esserne affetto: tutti pero’ ne riconoscono regolarmente i sintomi in tutti i simili (colleghi) che li circondano.

Tralascio i banali e più che diffusi alcoolismo, ninfomania, sociopatia e dipendenze varie, per illustrarvene due, che, più che frequenti, sono praticamente una tappa obbligata nella vita professionale di ogni cooperante che si rispetti (con almeno un anno di missione alle spalle).

La prima é l’ATTACCAMENTO MORBOSO A UN PAESE.

Proprio come in una storia sentimentale con un nostro simile, le varianti possono essere due: la sindrome della prima volta o il colpo di fulmine tardivo.

Il primo tipo ha le stesse dinamiche psicologiche del mito femminile del primo rapporto sessuale: il primo uomo non si scorda mai. E cosi’, tutti i cooperanti portano nel cuore, in modo speciale, amplificato, romantico e terribilmente intenso, il ricordo del primo paese in cui hanno lavorato.

Spesso, e mi annovero tra i malati (chi mi conosce lo sa), le “prime volte” sono proprio caratterizzate dalle maggiori difficoltà: pochi soldi, pochi o nulli mezzi, inesperienza e, di conseguenza, avventure inimmaginabili.

Ci vuole un sacco di inventiva per uscirne vivi. Ed é questo che rappresenta spesso un’esperienza indimenticabile.

C’é chi si trova a vivere nel villaggio africano senz’acqua per mesi, chi si trova a viaggiare su mezzi pubblici medio orientali per giorni…. tutti accumunati dalla stessa impreparazione e totale precarietà: per quanto mi riguarda, anche dalla stessa sconvolgente esperienza di trovarsi, per la prima volta, davvero soli con dei problemi non indifferenti e di non poca difficoltà da risolvere tipo: “riusciro’ a farmi una doccia?” o: “come faccio ad arrivare in quel posto senza metterci circa tre anni?”.

Il colpo di fulmine tardivo capita in momenti particolari della vita, e mi impressiona sempre non poco. Come é possibile che dopo anni di esperienza nei paesi più improbabili tu decida improvvisamente che il paese più figo del mondo é proprio l’Afghanistan?

Senza nulla togliere al suddetto, non c’é come “scusante” l’emozione della prima volta: suppongo che sia probabilmente la soddisfazione di aver trovato qualche elemento, forse un particolare impercettibile (per gli altri) che stavamo proprio cercando, e che ci era sempre mancato nelle esperienza precedenti…..si, proprio come nelle storie sentimentali.

Molto spesso, la mitizzazione del paese viene anche aumentata dal fatto che non ci si stabilisce a vivere li’: c’é chi lo fa, ma sono una minoranza.   Rimane un amore incompiuto e temporaneo, per questo struggente.

Spesso di va avanti, arrivano altre proposte di lavoro, i progetti finiscono: e cosi’ si cambia contesto, luogo, portando sempre con sé  pero’, a mo’ di osessione, il ricordo e il perenne paragone con “IL primo” o “IL paese”.

Pensate all’incubo della “ex ” perfetta/o e……fate un po’ voi.

La seconda malattia, ben più grave, più seria e dalle conseguenza spesso gravi, è il cosiddetto BURN OUT.

Letteralmente vuol dire ‘bruciarsi”: per me, milanese, che usavo questo termine ai tempi delle scuole superiori per identificare un abuso (di droga), richiama effettivamente il suo vero significato, la sua vera causa scatentante: l’abuso di lavoro.

Il burn out accade quando si lavora sempre. Troppo. O comunque, quando a livello mentale non si stacca mai.

Spesso capita nei contesti di guerra o di emergenza, nei quali cosi’ come per lavorare ci si dimentica di mangiare o bere, ci si dimentica anche (lo diro’ semplificando) di noi stessi.

Il lavoro diventa tutto (stadi di esaltazione assoluta o di disperazione totale a seconda dei successi/insuccessi lavorativi): e poichè il finale obiettivo del lavoro di cooperazione sono persone, si arriva ad un certo punto ad “odiare” o a provare forte fastidio nei confronti proprio di quelle persone che si dovrebbero aiutare. Perché ci hanno tolto tutto.

Fa ridere?

Non tanto, se vi dico alcuni degli “stadi avanzati”: anoressia, depressione, tendenze suicide, auto lesionismo, aggressività, esaurimenti nervosi. Gli stadi intermedi sono abuso di alcool e di sesso sfrenato: sono stadi piacevoli e divertenti, ma purtroppo portano direttamente e senza scampo agli stadi avanzati di cui sopra…..

Ci sono bibliografie e dibattiti infiniti su come proteggere i cooperanti e gli operatori umanitari da queste sindromi che, scherzi a parte, possono arrivare a comprometterne seriamente (la seconda soprattutto!) non solo l’efficienza lavorativa, ma lo stesso benessere psico fisico personale. Un brutto BURN OUT non curato puo’ lasciare segni indelebili: per capirci, come un viaggio da pasticca andata a male. Puo’ essere molto pericoloso.

La soluzione e la cura non si é ancora trovata: forse perché abbiamo dei limiti.

Non si puo’ impedire ad un essere umano l’innamoramento (prima sindrome) e nemmeno la sua amplificazione mentale, né si puo’ fermare un individuo dal “ribellarsi” da un lavoro che lo sta sopraffando e stritolando come gli ingranaggi di un grosso macchinario.

Siamo umani, e non invincibili: ma è difficile ammetterlo, i momenti di “outing” collettivi sono tanto rari quanto liberatori, durante i quali ci sentiamo fortemente stupidi, banali e tutti uguali, ma, incredibilmente e per la prima volta, non più soli,  né chiusi a riccio nel nostro idealismo.

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2 risposte a “Cooperazione: effetti collaterali”

  1. Alfredo ha detto:

    Cooperante per dieci anni, ho avuto il mio colpo di fulmine al quarto paese, dunque al quarto incarico. Forse ho anche sofferto di qualche devianza, che penso (spero) non si sia mai commutata in patologia.
    Il Burn out non mi è mai capitato per periodi superiori ad una settimana ed in concomitanza di scadenze impellenti e decisive. Ma più di tutto mi è piaciuto il fatto che ad un certo punto della mia vita professionale ho ringraziato tutti, e sono tornato a casa, a fare altro. Perché penso che chi decide di fare cooperazione, ha nelle corde anche la capacità di sapere fare altro.

    Alfredo Lo Cicero

    • Alfredo ha detto:

      Grazie Giulia, ma ti confesso un difficile periodo di riadattamento dopo l’esperienza della cooperazione. Mi sono sentito (e mi sento tutt’ora in alcuni frangenti) alquanto disadattato, poiché in Italia mi sento un pesce fuor d’acqua. Ma sono un animale sociale, e come tale mi adatterò.

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