Gli scioperi di Dongguan e la “socialdemocrazia” alla cinese.
Se un elemento nuovo si può ravvisare nello sciopero dei lavoratori della Yue Yuen di Dongguan, nella provincia meridionale cinese del Guangdong, è il fatto che la lotta sia incentrata più sul welfare che sulla paga. Più sui benefici di lungo periodo che su quelli immediati.
Le stime sulla portata dell’agitazione variano. Si va dai seicento lavoratori che avrebbero incrociato le braccia – secondo fonti (inattendibili) dell’impresa – ai trentamila dichiarati da China Labour Bulletin, una Ong con sede a Hong Kong. Ma questo poco conta.
Contano invece le ragioni. I lavoratori scioperano perché hanno scoperto che la filiale cinese dell’industria taiwanese che produce calzature per i maggiori marchi internazionali (Nike, Adidas, Puma, Timberland, etc) li ha ingannati su due benefit previsti dal contratto: ha versato somme inadeguate nel regime di previdenza sociale e ha pagato solo a un numero limitato di dipendenti i previsti contributi per l’alloggio.
Siamo in una fase di passaggio. Fino a poco tempo fa, gli operai cinesi lavoravano a testa bassa e protestavano su bisogni urgenti: la paga, soprattutto, ma anche l’impianto di condizionamento che si è rotto in ambienti particolarmente provanti ,oppure un particolare sopruso da parte del capo officina che fa “perdere la faccia” a qualcuno. Erano spesso proteste violente, diremmo “irrazionali”, amplificate dai numeri cinesi e con esiti anche tragici. Nel 2009, per esempio, la rivolta di 30mila operai in un’acciaieria nella provincia nord-orientale del Jilin si concluse con il pestaggio a morte del malcapitato manager spedito lì dalla compagnia per sistemare le cose. Non è l’unico caso.
Il perché si passi rapidamente dalla sottomissione alle esplosioni di violenza è presto detto. Da un lato, i cinesi non sono abituati a gestire i conflitti in proprio. Tutta la cultura “confuciana” insegna che di fronte a tensioni, nella vita privata come in quella sociale, è 1) meglio far finta di niente, oppure, 2) se proprio proprio si deve affrontarle, bisogna ricorrere a una figura autorevole che trovi la mediazione e decida. “Gei wo mianzi”, (“Datemi la faccia”, cioè fatemi l’onore di essere la figura autorevole che trova una soluzione al vostro conflitto) è la formula tipica in questi casi.
D’altro lato, in Cina mancano sia una sostanziale idea dei propri diritti sia i corpi intermedi – come da noi i sindacati – che mediano tra capitale e lavoro. Sì, c’è il sindacato “giallo” di Stato, la Confederazione pan cinese dei sindacati, ma è qualcosa di molto simile a una corporazione più che a un’organizzazione dei lavoratori.
Così, quando la goccia fa traboccare il vaso, il conflitto non è mediato da nessuna “figura autorevole” e l’umiliazione o la disperazione si trasformano in violenza.
Ora ci troviamo di fronte a uno sciopero “vero” e, al tempo stesso, con obiettivi di ampia portata.
Il che – azzardiamo (forse troppo) – potrebbe essere il segnale di una nuova consapevolezza operaia che si va sviluppando al pari dell’evoluzione materiale e sociale del Paese.
Da anni, i salari dei lavoratori manifatturieri – di solito migranti provenienti dalle aree rurali – sono in crescita. Il fenomeno è innescato dalla fine della rendita demografica cinese dopo 30 anni di controllo delle nascite (la famosa legge del figlio unico). La Cina, cioè, non ha più quell’illimitato esercito industriale di riserva che consentiva di tenere bassi i salari, il costo del lavoro, e quindi di inondare il mondo con le proprie merci low-end.
La nuova figura del migrante è ormai quella del giovane pronto a cogliere l’opportunità, “infedele” all’azienda. Se qualcun altro paga meglio, lui molla il lavoro (la fabbrica, il ristorante, il negozio) dall’oggi al domani e si trasferisce altrove.
D’altra parte, è ancora in piedi il sistema dell’Hukou, la registrazione “obbligatoria” che vincola diritti e servizi al luogo dove si è nati. Esisteva in epoca imperiale e fu reintrodotto nel 1958 da Mao. Serviva sostanzialmente a legare i cinesi – a quei tempi soprattutto contadini – alla terra o alla fabbrica, evitando migrazioni di massa nei centri più sviluppati. Con l’avvento delle riforme e aperture di Deng Xiaoping, all’inizio degli anni Ottanta, si smantellò la struttura collettiva della produzione e si cominciò a requisire i terreni (a uso industriale o speculativo), mantenendo però l’Hukou. Di fatto, venne meno la parte sociale della residenza obbligatoria – la tutela sul luogo di nascita/residenza/lavoro – ma si conservò quella penalizzante per i lavoratori: l’assenza di diritti altrove.
Il risultato è evidente: una massa di lavoratori a basso costo gettati sul mercato.
Oggi, con migliori condizioni in termini di rapporti di forza ma ancora pochi diritti, i lavoratori cominciano a porsi il problema di come garantirsi un futuro da sé: ed ecco lo sciopero per i contributi previdenziali e abitativi.
D’altra parte ci sono le difficoltà per le industrie. La contrazione degli ordini dall’estero a seguito della crisi economica globale e il costo del lavoro più alto hanno indotto molti a delocalizzare ulteriormente nei Paesi del Sudest asiatico; oppure a ricorrere ai trucchetti come quello, appunto, di promettere contributi che poi non sono versati. Ma c’è anche chi chiude la fabbrica all’improvviso e scappa con i soldi, senza pagare i salari arretrati. Insomma, chi paga per il welfare dei lavoratori?
Questa situazione crea una serie di problemi al governo cinese.
Primo. Il modello “fabbrica del mondo” non funziona più. Oggi, chi vuole produrre a basso costo non va più in Cina, bensì in Vietnam, Indonesia e così via.
Secondo. Lavoratori che passano velocemente da un’occupazione all’altra sono estremamente flessibili ma restano a bassa professionalità. In un mondo in cui la capacità di competere producendo merci e servizi ad alto valore aggiunto conta sempre di più, questo inchioda la Cina a un modello arretrato.
Terzo. La fine del vecchio modello genera conflitto e instabilità sociale, il Partito si è giocato buona parte delle proprie chances per il futuro sulla promessa di benessere diffuso.
Così, la leadership ha varato lo scorso novembre alcune riforme che, attraverso la leva materiale, dovrebbero lentamente creare un modello diverso. Non è ancora chiaro come si farà in dettaglio – in Cina si procede in genere con un modello “scientifico” che adatta le macropolitiche decise a Pechino alle condizioni particolari dei diversi luoghi – ma l’indirizzo è deciso. Sarà dato più welfare con l’allargamento del sistema pensionistico e di quello sanitario. Sarà riformato l’Hukou, consentendo ai lavoratori più movimento a parità di condizioni. Si darà ai contadini più controllo sulle terre che coltivano, mettendoli così nella condizione di poter scegliere tra agricoltura (che dovrebbe anche diventare più efficiente) e lavoro nei centri urbani.
È la strategia per tenere insieme capitale e lavoro, per continuare sulla strada della modernizzazione. Azzardiamo la definizione di “socialdemocrazia alla cinese” e sediamoci in poltrona a osservare, perché segnerà i prossimi 10-20 anni di storia del Celeste Impero. E quindi del mondo.