Costruire spazi coraggiosi!
Abbiamo iniziato un percorso sulla violenza di genere, maschile sulle donne e patriarcale molto tempo fa. Nel corso di questi anni abbiamo messo in discussione posture, scelte, azioni e reazioni.
Fin dal principio abbiamo intrapreso una strada scomoda: non guardare la questione come fosse qualcosa che non tocca direttamente le nostre vite e quindi con quella distanza di comfort che tiene fuori dal cancello dolore, sofferenza, ma soprattutto cambiamento reale.
La violenza di genere è tra noi, nei nostri ambiti di lavoro, in famiglia, nei nostri collettivi ed è il prodotto di quella cultura patriarcale dentro cui cresciamo, ci muoviamo, che subiamo, ma anche in cui sguazziamo normalizzandola.
Per renderla evidente abbiamo cercato di ribaltare la prospettiva, con lo slogan provocatorio, “Not all men… Ma la violenza di genere è un problema maschile” che ha lo scopo di dichiarare: “Ok, se sappiamo che la violenza patriarcale è radicata nella società e per questo riguarda tutt*, perché solo una parte di essa se ne occupa? Dove ca**o sono i maschi? I nostri fratelli, amici? I nostri compagni? Perché la lotta contro la violenza di genere nei confronti delle donne e delle persone LGBTQIAP+ viene portata avanti dalle soggettività più oppresse e non anche da chi appartiene al genere che maggiormente la perpetra?”.
Per questo è uno slogan provocatorio… perché, se pensi che non ti riguardi, se pensi di essere al di sopra di tutto ciò, se non vuoi metterci faccia e mani…beh, allora el violador eres tu, anche tu.
Senza questa presa di consapevolezza e responsabilizzazione, in fondo non ci si arriva.
Questo significa che dobbiamo metterci a insegnare qualcosa a qualche maschio che ha già da tempo deciso di non fare nulla? O che dobbiamo salvarli da brave crocerossine? Assolutamente no!
La decostruzione è un processo interno e personale che si deve intersecare ad ambiti collettivi ma che deve sempre partire da sé.
Perché una posizione va presa, e bisogna decidere da che parte stare nella complessità dell’esistente.
Da qui abbiamo deciso di conoscere ed entrare in contatto con gruppi maschili di autocoscienza che questa responsabilità o, meglio, “accountability” (termine che indica andare oltre all’assunzione di responsabilità di quello che è successo, e che prevede la capacità di prendere iniziativa e far parte del cambiamento che andrà a evitare che certi comportamenti si ripetano in futuro), hanno deciso di assumersela e che provano ogni giorno a mettersi in discussione e a divulgare il loro faticoso ma fondamentale lavoro. Attraverso la loro esperienza non si è solo parlato di come decostruire il privilegio maschile, ma anche di come la cultura patriarcale abbia influenzato la loro educazione e la loro relazione con gli altri generi. L’autocoscienza come pratica li ha aiutati a smascherare processi normalizzati, e a riconoscere gli stereotipi e i privilegi che hanno caratterizzato le loro esistenze in quanto appartenenti al genere maschile all’interno di una società patriarcale. Lavoro che non ha scadenze ma solo sfide da accettare.
Anche grazie all’arricchimento di questi importanti incontri negli anni, come collettiva abbiamo deciso di modificare quello che per noi era la prassi più “istintiva” davanti ai casi di violenza di genere all’interno del movimento, ovvero quella dell’isolamento, della cacciata e dell’esclusione di chi aveva agito quella violenza. Abbiamo compreso come ogni comportamento e reazione siano appresi e che leggere la violenza solo come agita e subita tra due soggetti (la persona che ha compiuto la violenza e la persona che è sopravvissuta ad essa) non vada ad analizzare e soprattutto a trasformare quelle che sono le radici del patriarcato stesso. Infatti, l’assunzione di una prospettiva di giustizia trasformativa è assolutamente necessaria per comprendere la complessità di quello che è il reale e i rapporti e le dinamiche che rendono possibile la violenza di genere. Non esiste nessun mostro da cui distanziarci, la violenza non è una eccezione ma è sistemica e contribuiamo tutt* in un modo o nell’altro alla sua continua esistenza, anche solo non intervenendo per prevenirla.
Questo implica che non la si può combattere individuando l’elemento da isolare, perché questo elemento vive all’interno di una cerchia amicale, familiare, lavorativa, di quartiere, è inserito in una società che avalla il patriarcato, è il prodotto di una serie di dinamiche di potere, dominio e sopraffazione che fanno parte del sistema in cui viviamo e che , consapevolmente o inconsapevolmente , alimentiamo tutt*.
La chiave non è quindi la punizione del* singol*,non è rinchiuderl* in una cella e buttare la chiave, non è sentirsi altr* da ess*, bensì è la trasformazione radicale, comunitaria e collettiva.
La trasformazione è un processo in divenire che prevede la scelta di percorrere una strada scomoda in cui tutt* prendiamo consapevolezza del ruolo e della posizione che abbiamo nella società e delle conseguenze che hanno i nostri comportamenti. La trasformazione significa arrivare insieme a capire cosa non funziona e cosa è stato agito e provare a identificare diverse chiavi di relazione, a volte a partire dalle basi. E ‘un patto di fiducia che si sostituisce a un patto di indifferenza e di omertà. Patto che deve sempre partire dalla volontà della sopravvivente in sinergia con le proprie tempistiche e la comunità di cui si sente di fare parte. Significa impegnarsi collettivamente contando sulle proprie risorse interne e sapendo ammettere quando invece è necessario anche un supporto esterno. Indica sapersi sostenere a vicenda, imparando a riconoscere e a non demonizzare tutte le emozioni e le sensazioni che una tale trasformazione richiede.
Questo processo trasformativo costante non ha come obiettivo la costruzione di spazi safe, definizione inflazionata e irreale, bensì quella di avere l’audacia di costruire spazi altri rispetto alla norma patriarcale, spazi che come ha dichiarato Giusi Palomba possono definirsi coraggiosi, perché hanno il coraggio di prendersi la responsabilità politica di quello che succede al loro interno.
La giustizia trasformativa e l’abolizionismo carcerario mettono in discussione quello che ci hanno da sempre insegnato, ovvero che punire rende giustizia. Non esiste giustizia all’interno di una società che porta avanti quella stessa cultura che consente agli aggressori di agire senza ostacoli tali violenze. Non esiste giustizia in una società dove le stesse istituzioni carcerarie sono luoghi all’interno delle quali i diritti umani non sono garantiti e in cui il dispositivo stesso riflette la società machista e violenta. Questo non significa stare dalla parte di chi commette la violenza, ma significa arrivare alla consapevolezza che pene più severe, più polizia per strada, isolare chi ha agito, non porta a nessuna riflessione e trasformazione. Non è così che si crea prevenzione e sicurezza. Non è così che si arriva a una reale giustizia sociale.
Messa in discussione maschile e tra maschi, giustizia trasformativa e abolizionismo carcerario sono le assi su cui abbiamo deciso di muoverci, intersecandole, facendole interagire, sovrapposte o in successione, tenendo sempre al centro la lotta al patriarcato e alla violenza di genere, maschile sulle donne e patriarcale, per la maggior parte delle volte affrontata da donne e persone LGBTQIAP+, cavalcata e a volte subita dal genere maschile (etero-cis), che pur di non mollare privilegi preferisce tendere a un modello di uomo-macho fatto di cavi d’acciaio, che non si piega ma che prima o poi si spezza, o subdolamente al modello di “alleato” che pensa di essere meglio degli altri perché ha più o meno capito il concetto di consenso e va a tutte le manifestazioni di Non Una di Meno.
L’ approccio transfemminista che abbracciamo è un processo costante e trasformativo che parte dà sé e si propaga sulle proprie relazioni e spazi di vita: non è qualcosa che termina o si conquista, non è una spilletta che si acquisisce e nemmeno qualcosa di semplice, ma è uno stile di vita da praticare quotidianamente da tutt* al fine di creare dei luoghi coraggiosi abitati da relazioni di cura e di rispetto e una società radicalmente differente da quella attuale.
La rivoluzione sarà transfemminista o non sarà!
DeGenerAzione
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