Informazione alla deriva

PREMESSA: non sono esperta di marina, di operazioni di salvataggio, non voglio giudicare né dare colpe e meriti della vicenda della nave Costa di cui, peraltro, si parla secondo me fin troppo. Ho scritto questa mattina un articoletto di getto dopo aver letto La Repubblica, riflettendo sulla qualità delle informazioni che stanno circolando su questa vicenda, e su come alcuni episodi come questi vengono narrati dai nostri media.

 

Una peculiarità tutta italiana e tipica dei nostri mezzi di (dis)informazione è quella di speculare all’inverosimile sulle tragedie per “alzare” gli ascolti di televisioni, giornali e media di tutti i tipi.

Le emergenze (naturali o umane, ma sempre e comunque eccezionali, e meglio se drammatiche) sono il perno centrale di questo meccanismo: spettacolarizzazione, storie di vita vissuta, lacrime facili, personalizzazioni e tanto, tanto buonismo e moralismo.

Sono sempre le “emergenze”, le “tragedie italiane” quelle che tirano di più, le garanzie di successo del pubblico: e non ci stupiamo poi se il nostro paese si “nutre” di un’emergenza dopo l’altra, schivando come il fuoco la cultura della prevenzione, della riduzione dei rischi, della sicurezza (quella VERA e non quella poliziesca, repressiva e militare!): non conviene a nessuno evitare le emergenze, in cui arrivano soldi, aiuti, ascolti, commozione e lavoro per tutti.

La Repubblica di oggi è un trattato di sociologia della comunicazione.

Le prima dieci pagine sono dedicate alla tragedia della nave affondata. Analizzare parole, toni e soprattutto contenuti degli articoli fa venire i brividi. L’intera vicenda è descritta come un film (non per niente, il Titanic viene citato più volte), irreale, tragico, diviso i atti e con toni e parole romanzeschi.

Ci mancherebbero solo gli effetti speciali che escono dalle pagine, tipo spruzzi di acqua, grida di may day e urla di disperazione.

La personalizzazione della vicenda è ovviamente centrale: dall’impianto accusatorio sul comandante, all’esaltazione assoluta, da eroi, di due altri colonnelli (con una netta e forte distinzione tra buoni e cattivi), fino alle storie personali, strappalacrime e romanzate dei passeggeri, morti e vivi.

Parole d’ordine: muovere lacrime, rabbia e cuori di quelli che leggono.

Ma mi raccomando, che non si tocchi l’azienda…deve essere una tragedia umana, personale, fatta di uomini e ricaduta sugli uomini, individualmente parlando.

Nulla o quasi viene detto del ruolo dell’azienda, responsabile del mezzo, del personale e anche della sua sicurezza. Nulla viene detto del business che c’è dietro questo tipo di gestione. Non viene nemmeno accennata la possibilità che, almeno, vi sia una co-responsabilità dell’azienda nell’aver scelto, formato, selezionato e pagato profumatamente per anni persone dalla (forse) dubbia capacità e responsabilità.

La responsabilità è dell’individuo. Punto. Deve essere messo alla gogna, in croce, tra gli sputi della gente. Un uomo senza palle. Forse un drogato (male supremo!). Un menefreghista.

Nessuno si chiede, o mette la pulce nell’orecchio dei lettori, di perché una persona dalle dubbie competenze fosse in una posizione di tale responsabilità. Nessuno si chiede e indaga se ci sia stato, come dovrebbe, un “sistema” intorno e sopra la persona, pronto a sostenerlo o sopperirne le mancanze.

L’errore umano c’è. Esiste.

Ma il problema che mi viene spontaneo sollevare è se ci siano, nelle grandi aziende, dei sistemi pronti e messi in atto per limitarli, compensarli, e, soprattutto, prevenirli. La persona è sola? E’ tutto a suo carico? Quali sono le responsabilità della sua azienda? La persona ha avuto formazione? Mezzi? Ci sono mai stati episodi che potevano fare pensare a una carenza di capacità o di responsabilità in precedenza? Come avvengono le selezioni del personale e gli scatti di carriera? Ci sono meccanismi di valutazione e controllo? Quanto del bilancio aziendale viene investito in sicurezza e prevenzione?

Sono tutte domande che mi frullano in testa e a cui vorrei una risposta, invece di sentire inveire contro la persona (additata con termini forse un po’ più soft come un “senza palle”) e sentir raccontare storie melodrammatiche di bambini in braccio alle mamme in mezzo alle onde….

Quando è che smetteranno di fare film e qualcuno ricomincerà a fare un po’ di informazione?

 

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2 risposte a “Informazione alla deriva”

  1. Claudio Maffei ha detto:

    Guarda che è così ovunque, l’informazione amplifica se stessa, focalizzando alcune vicende fino alla nausea. E tutti ne traggono lavoro e profitti. Gli articoli non si contano più, così come i servizi tv sullo stesso tema. E’ un lavoro, una merce, dove il prodotto che tira viene spinto da tutti per mesi e mesi. Questo vale per la cronaca nera, come per i disastri, o per i gossip.
    L’importante è avere notizie da pubblicare, mentre la qualità dell’analisi, le proposte costruttive,
    l’indagine per appurare le cause, non sempre vengono affrontate.
    Dopo. Sì forse dopo, quando la nausea avrà passato il segno si riparlerà delle stesse vicende con più intelligenza, sempre che ne valga la pena, in termini di lavoro informativo.

  2. Claudio Maffei ha detto:

    Uno dei problemi ignorato è se un mastodonte galleggiante con 5000/6000persone a bordo, possa essere gestito con razionalità durante un’emergenza, quando il panico e lo sconquasso dell’imbarcazione paralizzano tutti e rendono molto difficoltosi i soccorsi.
    E soprattutto quando il numero dei bisognosi di soccorso sono migliaia.
    In un contesto ambientale diverso, poteva essere una catastrofe con migliaia di morti, considerando la dotazione e la preparazione per i soccorsi, inesistente a bordo.
    Giusto pretendere un addestramento e una preparazione adeguate, per il personale, ma soprattutto tra i 1200 dipendenti dovrebbe esserci una squadra addestrata e predisposta solo per aiutare i passeggeri ad abbandonare la nave.
    Inoltre le aziende armatrici dovrebbero predisporre un centro logistico sempre attivo, sia per coordinare i soccorsi, sia per dare informazioni.
    Ho anche l’impressione che viaggiando su una nave di quelle dimensioni, si perda il contatto con la realtà esterna, delle cose che stanno sotto, delle distanze, per cui un approdo sembrava lontano, mentre era già sotto chiglia.

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