Numero chiuso alla Statale. Per un’università davvero pubblica
Per un’università davvero pubblica.
Il 23 Maggio 2017 il senato accademico dell’Università degli Studi di Milano ha deliberato, con 18 voti favorevoli 11 contrari e 6 astenuti, l’introduzione del numero programmato nella facoltà di Studi Umanistici. La seduta “straordinaria” del senato accademico è stata chiamata dopo che diverse centinaia di studenti e studentesse della facoltà, solo una settimana prima, si erano ritrovati nell’atrio centrale dell’ateneo di via Festa del perdono con l’intento di bloccare la seduta e avevano ricevuto il sostegno di una parte del corpo docente, contrario alle modalità con cui si stava operando per raggiungere tale decisione.
Per comprendere i motivi che hanno portato i professori a far pressione sugli studenti della facoltà di Studi Umanistici, infatti, bisogna ricordare che la Legge 2 agosto 1999, n.264 [1] consente ai singoli corsi di studi la possibilità di scegliere se introdurre o meno il numero programmato al suo interno tant’è che, all’interno della facoltà presa in esame, vi sono già dei corsi ad “accesso programmato”, come il corso di studi in “Scienze umanistiche per la comunicazione”. Nonostante questa possibilità di “autodeterminazione interna” dei singoli corsi di studi, il rettorato ha ritenuto necessario fare una forzatura, approvando un “parere obbligatorio” rivolto ai singoli corsi di studi con l’obbiettivo di uniformare la facoltà ai parametri Anvur, che prevedono una proporzione fissa tra studenti e docenti senza la quale il ministero dovrebbe imporre l’abrogazione del corso di studi negligente. Dopo “l’occupazione del senato accademico” anche l’opinione pubblica e le maggiori testate giornalistiche si sono interessate alla vicenda e il rettore Vago, sotto la pressione dei media e del corpo studentesco, ha deciso di accelerare la procedura, fissando la data della votazione al 23 Maggio.
A di là della singola questione, comunque di estrema importanza, pare logico pensare che l’interesse di ciascuno studente debba spingersi oltre il numero di CFU da conseguire o la data di un esame e che debba quindi concentrarsi anche su ciò che più banalmente riguarda la vita complessiva dell’ateneo: dall’insieme dei processi decisionali attraverso i quali si costruisce la struttura dell’università fino a quell’insieme di prassi che fanno dell’università, un luogo istituzionale. Non stiamo parlando di un obbligo esplicito all’informazione, né di un dovere di partecipazione attiva, anche se alcuni concorderebbero con queste posizioni, ma è molto limitante pensare che frequentare i corsi e dare gli esami debbano essere le uniche preoccupazioni di uno studente di oggi.
Moltissimi studenti infatti non conoscono minimamente la struttura del proprio corso di studi, le sue competenze ed i suoi progetti “extracurriculari”, alcuni ignorano perfino che vi sia la possibilità, ogni anno, di eleggere rappresentati degli studenti nei vari organi di facoltà, amministrativi e nel senato accademico. Non sorprende quindi che l’affluenza alle urne, durante le votazioni del 2016, si sia aggirata intorno al 7%. Il professore di filosofia politica dell’Università Statale di Milano, Roberto Escobar, nel libro Paura e libertà, afferma che “l’interesse, ammette e anzi cerca un accordo, un compromesso possibile nel più breve tempo possibile” [3] . Secondo Escobar, quindi, la nozione di interesse è legata al tempo, anzi, al “più breve tempo possibile” e se per lo studente il tempo è fondamentale, lo è anche, forse ancor di più, per l’istituzione.
A partire dalla scuola dell’obbligo ci hanno insegnato che lo studente non è altro che un contenitore vuoto da riempire di nozioni e comportamenti e che lo Stato spende ogni anno una certa cifra, tra stipendi e costi di gestione, per ogni singolo alunno; ciò prosegue in università dove il sapere diventa ancora più specifico e quindi più “prezioso” e dove sarà necessario dunque che uno studenti si laurei “in tempo”, così da smettere di gravare sul sistema accademico. Frasi del tipo “non vedo l’ora di laurearmi per iniziare a lavorare”, molto comuni tra gli studenti universitari, dimostrano quanto sia radicata l’idea della necessità di finire i percorsi formativi nel più breve tempo possibile. Ma siamo sicuri che sia un effettivo vantaggio? “L’ordine del tempo regola tutte le attività collettive degli uomini. Si potrebbe dire che l’ordine del tempo sia il principale attributo di ogni sovranità.”[4], afferma Elias Canetti .
Non è difficile comprendere dunque le motivazioni che si celano dietro ad alcuni provvedimenti presi dai maggiori atenei per “ridurre le spese”, esempio ne è stata la decisione di procedere alla riduzione degli appelli in modo capillare all’interno del mondo universitario. Oggi, rispetto a 10 anni fa, uno studente ha in media cinque appelli in meno per ogni esame. Non è difficile intuire quanto sia limitante per lo studente una riduzione del genere, e quanto, lo studente stesso, sia costretto a massimizzare il tempo a sua disposizione, destreggiandosi spesso anche con le difficoltà legate al mantenere un impiego lavorativo, quando necessario. Così la vita dentro e fuori dall’ateneo viene ridotta al minimo, iniziano a mancare le occasioni per seguire conferenze o dibattiti extra curriculari, per coltivare i propri interessi o per ritagliarsi del tempo libero. Le sessioni diventano ben presto appuntamenti irrinunciabili per tutti e per chi non riesce a parteciparvi, la prospettiva di perdere un anno si fa molto concreta.
Nonostante sia convinzione comune che all’interno del senato accademico esista la consapevolezza di queste difficoltà, non ci si è comunque preoccupati di approvare delibere impopolari come questa proprio durante la sessione d’esame, nel momento in cui cioè, era logico aspettarsi una più bassa mobilitazione.
Sarà dunque compito di noi studenti attivi, militanti e sognatori non perdersi d’animo davanti a una sconfitta, per quanto bruciante possa essere, poiché la lotta per la difesa di un’università che sia davvero pubblica e accessibile è un processo lento e costante che non deve riguardare i singoli atenei o corsi di studi specifici ma che deve essere capace di coinvolgere l’università per intero in un dialogo costruttivo che tenga conto delle reali esigenze di una società, la nostra, ancora oggi incapace di valorizzare e sostanziare il diritto allo studio in ambito universitario. È logico pensare che, nel momento in cui si ragiona sull’università pubblica, sia fondamentale adoperarsi affinché questa sia per davvero tale, affinché ogni richiesta di studio venga esaudita, affinché nessuno studente rimanga escluso. Per un Paese che già vanta le più basse percentuali di laureati all’interno dell’Unione Europea ( secondi solo alla Romania)[5], che fatica oggi a trovare una propria narrazione e che dispone comunque di un patrimonio artistico e culturale che non ha uguali, è fondamentale investire sull’istruzione e fare in modo che essa non si limiti a quella attuale.
Circoscrivere il percorso di studi umanistici vuol dire rinnegare la storia e perdere la capacità di analizzarla, di coltivarla, di prendersene cura e di darle seguito.
LUMe – Laboratorio Universitario Metropolitano
Intervista a Pietro, studente di filosofia militante di LUMe e caporedattore di Altrementiblog
NOTE
[1] http://university.it/elezioni-in-statale-vince-unisi-crolla-laffluenza-nelle-facolta-scientifiche
[2] http://www.miur.it/0006Menu_C/0012Docume/0098Normat/2056Norme__cf2.htm
[3] R. Escobar, Paura e libertà, Morlacchi editore, Perugia 2009, p.100
[4] E. Canetti, Massa e potere, Adelphi, Milano 1981, p.482
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