Ospitalità solidale in via del Turchino: il fallimento di un’idea buona

Sono arrivata in via del Turchino l’8 novembre 2014, dopo la laurea, senza un soldo e piena di entusiasmo. Per la prima volta avevo una casa tutta per me. E, soprattutto, avevo al mio fianco ragazze e ragazzi coetanei con cui condividere questa nuova esperienza: un progetto di riqualificazione urbana in uno dei quartieri descritti sulle pagine dei giornali come i più pericolosi, tra spaccio, occupazioni e delinquenza. Io non ho mai creduto a racconti come questi che definisco più pettegolezzi che cronaca, e come sempre ho voluto vedere da vicino, tanto da trasferirmici. Sono bastate poche settimane per innamorarmi di quell’enclave che è via del Turchino: una strada di palazzoni grigi e squadrati con vista Ortomercato, dove la gente urla anche di notte ma puoi dormire con la porta aperta, con le galline nelle cantine e il profumo di spezie che esce dalle finestre. Ad ogni ora del giorno la signora eritrea che vive sul tuo pianerottolo aprirà la porta e ti obbligherà a mangiare con lei. È la periferia di Milano sud est, così lontana eppure così vicina ai luccichii di via Torino: pochi minuti di tram, tra i 15 e i 20, e sei in Duomo. Ma per i più è un viaggio di sola andata verso il centro perché nessuno, se non in campagna elettorale o per tornaconto politici, qui ci mette piede.

In via del Turchino ho vissuto quasi due anni. Nel progetto ‘Ospitalitá solidale’ avevo riposto, almeno all’inizio, belle speranze. Disilluse, per quanto mi riguarda, in poco tempo. Per farla breve, c’era stata data una casa (dai 23 ai 28 mq) a 370 euro al mese escluse le spese. Non un vero e proprio canone di locazione (non può infatti essere definito ne scaricato come “affitto”), quanto un rimborso per le spese del progetto. Un costo che può essere definito “calmierato” a confronto dei costi di una metropoli dove è difficile trovare allo stesso prezzo una stanza singola, ma non adatto se il progetto di autonomia abitativa nasce rivolto a giovani precari o studenti.

Inoltre in cambio dovevi svolgere almeno 10 ore di volontariato per il quartiere partecipando ad attività coordinate da educatori professionisti. Di fatto, però, siamo stati abbandonati a noi stessi e nessun progetto vero e proprio, almeno fino alla mia partecipazione (novembre 2014-maggio 2016), è stato portato a termine, ma solo iniziative ‘spot’: un pranzo in cortile, un pomeriggio musicale con degli artisti di strada. Poco altro. Con scarsa partecipazione degli abitanti, anzi. I residenti delle case popolari dei civici 18, 20 e 22 ci vedevano come estranei, se non fosse per la buona volontà di alcuni di noi singoli (e comunque non tutti, c’era chi se ne fregava perché tanto nessuno ci controllava) che nella quotidianità abbiamo cercato di creare buoni rapporti di vicinato. Qualcuno provava nei nostri confronti addirittura astio, e li capisco, perché se istituzioni, cooperative e associazioni si fanno belle a parole, elencando fior fior di iniziative, ma poi non sono presenti nei fatti, allora, che senso ha.

Ricordo però l’asfissiante richiesta di noi inquilini per avere una lavatrice: c’era stata promessa ma è arrivata oltre un anno dopo la partenza del progetto. Una per tutti i partecipanti (circa una dozzina), posizionata nella portineria di uno dei due palazzi interessati dal bando e di difficile fruibilità. Per aprire la saracinesca dello stanzino in cui era stata posizionata, infatti, a volte era necessario il piede di porco, mentre l’oblò non si apriva se non uno spicchio: andava a sbattere contro il gabinetto del portinaio, maleodorante.

Volete sapere quando mi sono sentita insicura? In quali occasioni ho temuto per la mia incolumità? No, non tornando sola alle 3 di notte con la famigerata 90 nella vicina piazzale Cuoco. Ma quel giorno in cui la via si è riempita di forze dell’ordine in tenuta antisommossa per sgomberare una donna incinta al sesto mese con una gravidanza a rischio; e quell’altra mattina in cui una ragazza (tra l’altro amata dalle vecchine sole del quartiere perché sempre premurosa con loro) è stata allontanata dall’abitazione che per necessità, in una città per ricchi come Milano, aveva occupato. Per il suo sgombero erano scese in campo decine di uomini in divisa, era talmente pericolosa da avere un peluches a forma di panda tra il mobilio che con la forza è stata costretta a portarsi via.

Amerò fino alla fine dei miei giorni il Turchino, e nessun altro luogo potrà abbracciarmi come ha fatto lui. Non certo per educatori (retribuiti) poco presenti, non certo per i rappresentanti del Comune abili a mettersi in posa per una fotografia. Ma per merito dei suoi abitanti, anche di quelli più problematici di cui i quotidiani aspettano “passi falsi” per farci un bel titolo. Perché, se c’è una cosa che ho imparato in via del Turchino, è che il povero profuma solo quando in ballo ci sono soldi, consensi e like.

Ester

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