Barba e maschera: a noi l’umanità, a voi il silenzio.
Di Gabriel
Casco, protezioni, volto coperto, praticamente irriconoscibile, e maschera antigas. Un eversivo, un facinoroso, un black bloc? No, non stavolta. La lunga ed articolata campagna mediatica iniziata dopo le proteste del 14 dicembre 2010, e che ha dato ufficialmente inizio ad un clima di isolamento e caccia dei manifestanti violenti, ci ha abituati a riconoscere a prima vista il tanto temuto balck bloc con un identikit bene o male simile a quello sopra citato, a cui vanno aggiunti la provenienza dalle BR, la frequentazione dei centri sociali e suggestivi ‘’viaggi di addestramento’’ nelle piazze greche durante gli scioperi generali. Ma in questo momento, tuttavia, il soggetto su cui vogliamo riflettere è un altro, che per una strana coincidenza, forse anche per un’ironica sorte, pur essendo la nemesi per eccellenza del black bloc non gli è poi così differente. Siamo in Val Susa, il pomeriggio del 29 febbraio 2012: in seguito alla tragica caduta da un traliccio del rappresentante del movimento Luca Abbà, tutt’ora ricoverato in condizioni gravissime, che si opponeva allo sgombero forzato dei terreni finitimi al cantiere per l’allargamento dello stesso, i pesanti scontri a cui questo ha dato inizio concedono finalmente una tregua alle due parti. Ed è durante questa pausa che avviene un insolito faccia a faccia tra un manifestante e un carabiniere del reparto celere che, come gli fa notare il primo, a differenza sua è privo di un qualsiasi mezzo di riconoscimento: ‘‘ Non hai un numero, un nome, un cognome, niente, vero? Lo sai che sei un illegale? Dovresti avere un numero di riconoscimento, perché così io non so chi sei, ma tu sai chi sono io. Vero pecorella?’’, questa, letteralmente, la frase incriminata, che non è sfuggita all’occhio dei media e da questi è stata subito diffusa, elogiando il comportamento ‘’professionale’’ e ‘’corretto’’ dell’agente. Infatti non serve riportare la sua risposta, perché questa non esiste: un lungo, ininterrotto silenzio, accompagnato da qualche cenno della testa, è tutto ciò che costituisce la risposta che l’ignoto carabiniere dà al manifestante. Cos’è che i media, oltre alla situazione di reale disagio del movimento No Tav, che da anni si oppone ad un opera contestabile e non condivisa senza essere ascoltato, oltre alla mediocre gestione dell’ordine pubblico da parte delle forze dell’ordine che ha portato alla caduta di Luca Abbà e al suo ricovero, oltre alle ragioni di persone che al ritorno dall’ultima dimostrazione pacifica nella zona sono stati accolti in stazione a suon di cariche a freddo e gas lacrimogeni sui vagoni del treno, hanno dimenticato di evidenziare? La reale natura di quel lungo, straziante silenzio che il carabiniere, destinato a rimanere per sempre nell’anonimato, oppone alle parole di Marco Bruno, in seguito arrestato durante le proteste. I pareri su quanto fosse corretta e legittima la dura critica di Bruno al carabiniere sono diversi, per alcuni ha fatto benissimo, per altri ‘’è stato un autogol’’, ma ciò su cui credo tutti siano d’accordo è il punto di partenza da cui queste hanno avuto origine. Perché, in effetti, un agente delle forze dell’ordine può, o forse deve, non essere identificabile? Per quale motivo le autorità devono poter riconoscere l’identità di chiunque partecipi anche alla più pacifica delle manifestazioni, e al contrario un dimostrante malmenato ingiustificatamente o bersaglio del lancio ad altezza d’uomo di proiettili lacrimogeni non è legittimato a conoscere i suoi attentatori? Chi tutela realmente, sotto questo punto di vista, i manifestanti dagli eccessi delle forze dell’ordine, che se realmente costituiscono delle eccezioni devono essere a maggior ragione isolati e puniti? Chi fa onestamente il proprio lavoro, chi prende poco più di mille euro al mese per tutelare davvero la sicurezza dei cittadini non ha nulla da temere nel poter essere riconosciuto, d’altra parte è proprio chi mena le mani, chi ha scelto il proprio lavoro per faziosità, chi per odio, e non per dignità, lavora nella celere che cercherà di nascondersi e di mischiarsi nel mucchio, al fine di nascondere i suoi crimini. Casi come quello di Carlo Giuliani e Federico Aldrovandi, dei pestaggi nella Diaz, a Bolzaneto e all’ospedale San Paolo di Milano avrebbero visto la giusta applicazione della giustizia se ci fosse stato modo di risalire con precisione ai loro responsabili, eppure il loro reale sviluppo è ben noto. E di fronte a un argomento così pungente e diretto, quale la risposta del bersaglio? Alcuna. Non si tratta di dignità, si tratta di un sistematico e totale annientamento della personalità dell’individuo, che al pensiero preferisce il silenzio, al dialogo contrappone una scena muta, e sulla convinzione di ‘’fare solo il suo dovere’’ giustifica l’ingiustificabile. Dietro quella maschera, è vero, c’era una persona, ma in questa persona rimaneva l’umanità? Umanità intesa non come l’astinenza dalla violenza ingiustificata, di cui non possiamo né probabilmente potremo mai avere prove, ma come l’avere sentimenti, come l’argomentare i propri pareri, le proprie ragioni, come il fare ricorso al più elementare principio che ci permette di avere rapporti con gli altri e, anche in una discordanza di opinioni, cercare almeno di rendere conto del proprio operato. Se un individuo, con la giustificante di eseguire degli ordini, sopprime il proprio animo in una situazione così semplice ed elementare, cosa impedirà che faccia lo stesso in casi ben più gravi come la repressione di qualcuno che viene considerato ‘’scomodo’’ dall’alto, sia questo un cassaintegrato, un anziano No Tav o uno studente che si oppone ai tagli all’istruzione? Difficile a dirsi. Fatto sta che chi cerca di giustificare una simile manipolazione della personalità dell’uomo scambiandola con la professionalità, altro non fa che apportare il proprio contributo a un processo criminoso ed estraneo a qualsiasi principio di umanità, appunto. Forse è vero, contro quel carabiniere c’era spazio più per la comprensione che per lo scherno, magari anche per la compassione, ma niente può rendere conto dell’apatia forzata e, soprattutto, del suo prevalere sulla reale natura dell’uomo, pratica che ormai sta alla base dell’educazione militare e del conformismo ipocrita a cui la società si sta sempre maggiormente assoggettando. Ora più che mai, restiamo umani.
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