Straniero in casa propria. Stralci di vita quotidiana dalla lombardia che vota maroni.

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Ho vissuto con i miei fino alla fine delle superiori, fuori Bergamo. Poi mi sono iscritta in università a Milano e ho avuto la fortuna di potermi trasferire con mia sorella in quella che una volta era la casa di mio nonno, un piccolo appartamento all’ottavo piano di un palazzo degli anni ’50. Una fortuna, visti gli affitti che son di norma in città, anche se tra bollette, tasse, riscaldamento e spese condominiali ho delle uscite che non scendono mai sotto i 450€ al mese. Del resto mi piace la mia casetta, è modesta e poco arredata ma ha una bellissima vista sui tetti del centro e anche se le tapparelle si rompono ogni due mesi e le finestre in legno si stanno lentamente deteriorando, ci sono molto affezionata. Tutto questo per dire che a 26 anni vivo da sola, non certo nel lusso ma con lavoretti a singhiozzo che mi permettono di restare a galla e quando proprio non ce la faccio posso ancora chiedere una mano ai miei. Insomma mi sento fortunata, lo sono.

Ho un amico egiziano che ha circa la mia età. Quando io finivo il liceo e mi preoccupavo di scegliere una facoltà piuttosto che un’altra, lui partiva per la Libia a cercare un barcone su cui sfidare il mediterraneo per inseguire un sogno di riscatto che non si è ancora avverato. Arrivato a Milano ha passato 6 anni a farsi ospitare da conoscenti o parenti alla lontana, una volta sul divano in ingresso, un’altra su un materasso per terra, appartamenti piccoli e decadenti con altri 4 o 5 coinquilini, quando erano pochi. I primi anni lavorava per una ditta edile, ovviamente in nero, e avendo già ben chiara in testa l’incertezza del futuro, finite le sue 8-9 ore di lavoro chiedeva di poter proseguire con straordinari notturni, perché “i soldi vanno e vengono, e finché c’è lavoro bisogna tenerselo stretto”. Nel 2009 il suo datore di lavoro gli promette un’assunzione e un permesso di soggiorno, in cambio di 7.000 euro (!). Ingenuo, paga e attende una risposta che non arriva mai, finché scopre di esser stato truffato, lui come altre migliaia di persone. Dovrà aspettare il prossimo decreto flussi per avere finalmente quel pezzo di carta che sancisce la fine del suo stato di criminalità amministrativa.

Nel frattempo viene licenziato, poi trova altri lavori – sempre in nero, anche se ha il permesso – e un giorno mi dice: “sono stufo di elemosinare un letto in case di altri, mi prendo un monolocale in affitto”. Ai tempi cercavo di fargli capire come un affitto fosse una spesa importante da sostenere, a Milano soprattutto, ma non ci ho messo molto a realizzare che per lui non era una questione economica ma un fatto di dignità: avrebbe lavorato giorno e notte pur di poter rientrare a casa e trovare il proprio spazio di vita ad attenderlo, anziché litigi e compromessi di convivenza.

Quand’era piccolo – mi ha raccontato mesi dopo – in Egitto per un certo periodo viveva con i genitori in una baracca di fango. La notte non riusciva a dormire perché i topi facevano rumore camminando sul tetto e rosicchiandone gli strati di paglia e plastica. Io, che per quanto precaria, di lavoro e di esistenza, tutto sommato ho il culo nella bambagia, non posso immaginare che sensazione deve aver provato quando ha passato la prima notte nel suo appartamento, a due passi da un parco e dalla metropolitana, a Milano. Doveva essere al settimo cielo. Lentamente però il lavoro ha iniziato a mancare. Nell’ultimo periodo ne faceva anche tre insieme, ma non ha mai visto un contratto, né superato i 5 euro l’ora di compenso e dopo poche settimane l’hanno lasciato a casa di nuovo. Quel monolocale gli costava 750€ al mese, così l’ansia dell’affitto cresceva e l’indipendenza e l’autonomia che si era creato lentamente sfumavano dietro alle preoccupazioni per i debiti accumulati e alla pesante incombenza di certe scelte di vita.

Così, appena mia sorella è uscita di casa, l’ho chiamato: “ho una sorpresa per te, una stanza a costo zero”. La sua camera aveva un vetro rotto e la tapparella bloccata, ma quando l’ha vista il suo sguardo diceva “è una reggia!”. Sono felice di ospitarlo, sono felice che ora sia tornato in Egitto a trovare i suoi senza doversi preoccupare di cercare una cantina o un solaio dove lasciare la sua roba, non vedo l’ora che ritorni per assaggiare di nuovo le sue polpette speziate e scambiarci impressioni su una città che per entrambi è un approdo di viaggi così diversi e lontani.

Ma dall’alto del mio idealismo troppo astratto per questo mondo, mi sono dovuta scontrare con una realtà che non avevo considerato. Da quando il mio amico abita con me, in portineria è apparso un cartello: “I signori condomini sono pregati di assicurarsi che il portone sia sempre chiuso perché degli estranei sono stati trovati all’interno dello stabile”. All’inizio non ci ho fatto caso, non è nuova in questo palazzo una paranoica ossessione per la sicurezza: tempo fa uscii di casa dimenticando le chiavi e per poter rientrare dovetti aspettare mia sorella perché i vicini non mi volevano aprire. “Sarà la metropoli”, pensavo, io che ho sempre vissuto in una cascina in mezzo ai campi dove la porta di casa è sempre stata aperta e nessuno ha mai rubato nulla. Poi scopro che il mio amico è stato notato da una vicina mentre usciva di casa e che all’amministratore sono arrivate preoccupate comunicazioni per la presenza di “extracomunitari nel palazzo”. Inizialmente mi viene da quasi da ridere, ma la cosa prosegue ed oggi scopro che la stessa vicina ha intenzione di denunciarmi per cessione di fabbricato e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina! A parte il fatto che il mio amico clandestino non è, mi sono informata e ho scoperto che fino a pochi mesi fa era ancora in vigore una legge antiterrorismo degli anni ’70 che obbligava chi volesse ospitare qualcuno per più di 30 giorni a comunicarlo alle autorità per non incorrere in sanzioni anche importanti. La legge è stata poi modificata, ma con un’eccezione: se l’ospite non è cittadino comunitario, la comunicazione va fatta in ogni caso, come ben specifica il razzistissimo testo unico dell’immigrazione tanto caro alla lega e al nostro – ahimè – presidente della regione. La legge è la legge ma io me ne sarei volentieri fregata, se non fosse che alle 6 del mattino la polizia suona al mio campanello per verificare se il sospetto extracomunitario è davvero intruso in casa mia.

Non so perché mi stupisce così tanto questa vicenda. In fondo migranti_nonbasta guardarsi intorno per capire che diffidenza e chiusura mentale sono all’ordine del giorno, anche e forse soprattutto tra chi il culo al caldo lo porta a casa in tranquillità ogni sera. Per molti il problema non è avere un tetto sopra la testa, bisogna potersi permettere le vacanze sulle spiagge esotiche del mondo, bisogna pagarsi sky, fastweb, la bmw luccicante nel box, la borsetta di gucci e l’estetista una volta al mese. E per avere tutto questo si fatica, si lavora, si scalano le classi sociali in continuo affanno verso il ceto più abbiente. Le cose che possiedi e i benefici di cui godi sono l’asticella che rappresenta il tuo valore personale in società: tutti quelli che stanno sopra sono modelli a cui ambire, tutti quelli che stanno sotto sono pezzenti di cui diffidare. Perché quando fatichi per una quotidiana competizione con gli altri, lo sgomitare per affondare i concorrenti fa parte del gioco, specie in tempi di crisi. E allora perché mi stupisco? Forse il punto è che per chi come me ha un’altra visione del mondo, per chi si impegna in dimensioni collettive per immaginare e costruire una società plurale piuttosto che limitarsi a difendere il proprio (falso)benessere individuale, il bisogno di ritrovarsi e condividere “tra simili” rischia di far perdere di vista la più ampia fetta di società esistente, così apparentemente lontana eppure in realtà così tangibile e reale.

Ora io mi chiedo, dopo tutto quello che il mio amico ha passato, come faccio a dirgli che dobbiamo “regolarizzare la sua posizione” perché i vicini non hanno un cazzo da fare se non pensare che io stia lucrando sui miei 60 mq di appartamento, affittando in nero ad un non meglio identificato e probabilmente pericoloso straniero. Ovviamente non dirò nulla al mio amico e quando rientrerà dall’Egitto firmeremo due carte “perché non si sa mai”, ma la prossima volta che incontrerò la vicina in ascensore le chiederò se vuole salire da noi a bere un tè verde alla menta, sperando che non le vada di traverso.

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