EEE – Eni, Egitto, Energia

chain-gang-terrie-yeatts«Risultato straordinario, partnership strategica per l’Italia». È con queste parole che Matteo Renzi ha commentato la scoperta del più grande giacimento di gas del Mediterraneo al largo delle coste egiziane da parte dell’Eni. In un’area, in prossimità del delta del Nilo, dove, per precedenti accordi con Il Cairo, l’azienda avrà una gestione al 100% delle risorse. Un bel colpo.

Con 850 miliardi di metri cubi, a 107 km dalla costa di Port Said e a circa 1 chilometro e mezzo di profondità, il pozzo “scovato” dalle trivelle del colosso energetico italiano si appresta a ridisegnare in men che non si dica gli assetti geopolitici del Vecchio Mondo. E non solo. Tra gli entusiasmi di piazza Affari, che ha immediatamente premiato il cane a sei zampe con un rialzo del titolo dell’1,36%.

Tecnicamente, a detta degli esperti del mondo dei combustibili fossili, per Eni si tratta di una scoperta “meritata”: una vera e propria miniera d’oro, ops, di idrocarburi, venuta alla luce grazie a una coraggiosa, determinata e innovativa gestione da parte dell’azienda e che, secondo gli ultimi aggiornamenti, potrebbe dare il La ad altri investimenti nelle aree limitrofe, dalla costruzione di gasdotti dedicati, alla trivellazione di nuovi pozzi nelle acque cipriote.

Eppure… Io sono perplessa. Perché se è vero, ed è vero, che questa scoperta ha qualcosa di eccezionale – basti pensare che la riserva soddisferebbe il fabbisogno energetico dell’Egitto per decenni – è anche vero che in questo entusiasmo ci trovo qualcosa di terribilmente conservatore. E che il coraggio e l’innovazione per me stanno altrove. Ad esempio in chi decide di investire il proprio gruzzoletto per installare delle tecnologie rinnovabili. Nei ricercatori indipendenti dalle mode e dai movimenti del capitale. Nelle comunità che sperimentano nuove forme di produzione e di messa in rete dell’energia.

Mentre la direttiva europea sulle rinnovabili incalza con la retorica del 20/20/20 (per approfondire leggi qui), mentre a dicembre a Parigi si terrà la Conferenza delle Nazioni Unite sul Clima, mentre Fukushima ancora sparge radioattività negli oceani e mentre la retorica dei cambiamenti climatici viene tirata fuori a ogni piè sospinto (anche se, concedetemelo cari amici del green, non sempre a proposito e anzi in modo spesso strumentale e superficiale) per giustificare le inadempienze dei governi rispetto al dissesto idrogeologico o per dare addosso alla Cina, noi stiamo ancora qui a stappare champagne per il gas.

Sia chiaro: le energie rinnovabili hanno le loro contraddizioni e controindicazioni, soprattutto in un Paese come l’Italia dove pale eoliche vengono costruite anche dove non c’è vento. O dove quello che per un po’ è stato descritto come il “miracolo vendoliano” ha sfregiato la Puglia con ettari di pannelli fotovoltaici a terra, sottraendo spazio all’agricoltura, spesso con una gestione, peraltro, tutt’altro che immune dal caporalato. Ma che tutto ciò che riguarda la tecnologia, figurarsi poi quando si parla di energia, sia prima di tutto qualcosa di politico è bene ficcarselo in testa, e ricordarselo quotidianamente.

Perché di idrocarburi sono intrisi non solo i territori, le città e le infrastrutture, ma anche la società. Il petrolio e i suoi derivati stanno, certo, nel cemento, nelle autostrade, nei serbatoi delle nostre automobili, nell’aria, nei fiumi o nei mari. Ma soprattutto, stanno nella nostra testa.

Sta nella nostra abitudine all’accentramento di decisioni e poteri. Sta in un’autonomia dell’individuo e delle piccole comunità ridotta a quasi zero. Sta nella diffusione epidemica di una rinuncia all’autorganizzazione. Nella predisposizione alla dipendenza. E all’obbedienza. Nell’assimilazione delle terre a pozzi da depauperare fino all’esaurimento. Sta nell’inconsapevole quanto diffuso senso di impotenza che ci colpisce davanti ai grandi predatori del nostro tempo. Nell’arrendevolezza con cui la maggior parte di noi cerca di adattarsi come meglio riesce all’assetto attuale della società. Nell’assenza di fantasia per immaginarsi qualcosa di diverso. Nella subordinazione della ricerca. Nelle scelte educative e professionali, nostre e della prossima generazione. Nella mancanza di concentrazione e di competenze. Perché tanto, per accendere una lampadina, avremo sempre bisogno di loro.

Ecco, allora io la mia bottiglia di spumante preferisco tenerla per quando finalmente avremo una visione sul risparmio energetico e sulla produzione di energia sostenibile e distribuita. Me la tengo per quando le scelte che riguardano la gestione del territorio per i nuovi impianti saranno fatte attraverso la partecipazione pubblica. Per quando i geologi non saranno costretti a mendicare fondi alle lobby del petrolio e la ricerca sarà davvero libera e andrà in direzione ostinata e contraria rispetto a un sistema incastrato nel carbon fossile. Perché la verità è questa, e non lo sostengo io, ma lo sostengono fior fior di sociologi (vedi Lehman, 2012): viviamo in un “carbon lock-in system”. Clock. Bloccato.

Ma se non ci fosse soluzione, non ci sarebbe problema. E la soluzione c’è. Basta avere l’intenzione di cercarla. Mettendosi in testa che sarà lungo e faticoso. Che richiede sforzi e capacità. A partire dal dialogo tra scienza e società.

Perché il “lock-out” dal petrolio è roba tosta. Perché i combustibili sono molto più di quanto ci piace ricordare all’origine dei soprusi del nostro tempo. Si muovono insieme alle crisi economiche e finanziare e non di rado ne sono causa. Originano guerre, dittature, colonialismi di ogni genere e specie. Deviano le altre economie, a partire dall’agricoltura, oggi in gran parte dipendente dal petrolio. Soprattutto, ci rendono schiavi perché provocano un accentramento di potere, che ci tiene sotto scacco. E se il mondo oggi si divide in sfruttati e sfruttatori, sì, è anche perché siamo strettamente incatenati agli idrocarburi.

Così, tanto per non dimenticarcelo.

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