Non si vive mangiando lucertole | Appunti da un viaggio breve tra le arance di Ribera
La partenza è al mattino presto da Catania per andare a trovare Giuseppe delle arance a Ribera, Agrigento.
Giuseppe l’abbiamo conosciuto pochi anni fa; ci aveva chiamato per partecipare con le arance ai tre giorni di fiera/festa contadina al Leoncavallo; per l’edizione 2011 de La Terra Trema era tardi, ogni stand era stato assegnato, rimandammo l’incontro all’edizione successiva, quella del 2012; Giuseppe ha partecipato, entusiasta, attivo, ci siamo riconosciuti e si è fatto un legame.
La sua storia e il suo mondo ci mettevano di fronte a molte domande; guardavamo con riguardo a questo contadino siciliano, al suo lavoro, alle fatiche e alle aspirazioni.
Col furgone carico all’inverosimile di arance, con qualche latta di olio extravergine, partiva da Ribera per arrivare al porto di Palermo.
Imbarcarsi sul traghetto, arrivare a Genova, girare per Milano e hinterland a consegnare a domicilio i suoi prodotti, mai stanco, sempre alla ricerca di clienti nuovi perché altrimenti non si rientra delle spese, dei costi, altrimenti non si vive.
Macinare chilometri anche per 10/12 ore al giorno, entrare nelle case dei milanesi, parlarci, chiedersi, ascoltare, rispondere, scaricare cassette, 5/10 giorni ogni volta, da novembre fino a marzo, anche 7/8 volte in quattro mesi, avanti e indietro dalla Sicilia alla Lombardia.
Una storia che solo sentirla è un controsenso, fatica di Sisifo invera eppure reale perché la leggi a ogni incontro sulla faccia stanca, nella voce rotta, sulle gomme del furgone rosso.
Giuseppe e questa storia volevamo vederli da vicino e volevamo conoscere le sue terre e chi gli è caro.
Capire quell’enorme arzigogolo che lo portava così spesso da noi.
Giuseppe da parte sua ha sempre tenuto la porta aperta del suo mondo, invitandoci più d’una volta ad oltrepassarla.
Siamo partiti allora.
Ci ha detto – “Ci vogliono 3 ore e mezza, anche quattro”.
Ci è sembrato esagerato. Fino a Caltanissetta è poco più di un’ora, la strada scorre tranquilla e immersa nel panorama torrido e giallo, pascoli liberi, d’ogni tipo, vacche, asini, cavalli, capre, pecore, maiali.
Ma a lasciarsi Caltanissetta alle spalle, inizia un problema; a dirigersi verso Agrigento le cose cambiano. È la statale 640. Finisci veloce in una tipica storia di infrastrutture italiane.
I cartelloni CMC (Cooperativa Muratori e Cementisti di Ravenna, la stessa che ha vinto l’appalto per lo scavo del tunnel geognostico della Torino-Lione in Val Susa), e altri cartelloni ministeriali dicono di Legge Obiettivo e di lavori in corso d’opera.
È così, una miriade di rotonde provvisorie, un nugolo di reti arancioni, labirintici svincoli costruiti da new jersey di plastica bianchi e rossi, equivoci grappoli di cartelli che indicano pericolo, accessi balordi, strade che si chiudono.
L’idea di infrastruttura si scontra, violenta, addosso a quel castello di carta fragilissimo e pericoloso.
“Ci metterete 3 ore e mezzo, minimo” – ci aveva ripetuto Giuseppe.
È immediato, è una strada insidiosa, criminale, pericolosa.
L’unico collegamento tra la Sicilia sud-occidentale e il mondo è un attentato alla vita d’ognuno che sceglie di attraversarla.
Patria infame e scellerata; mette in ballo milioni di euro, fornisce un appalto di 400 milioni gestito nella quasi interezza da CMC per realizzare il raddoppio di parte della statale che percorriamo e altre cose (iniziato nel 2009 e da terminare nel 2012) e quello che le rimane in mano è una costellazione di piccoli altari per chi, lungo quella strada, ci è morto in un incidente: mazzi di fiori di plastica impolverati, sciarpe della Juventus, fotografie scolorite, biglietti, striscioni, preghiere di madri per chi ci ha lasciato la vita.
Nella testa nostra il pensiero va a Giobbe che tre giorni prima di questo viaggio è stato incarcerato per le battaglie No Tav; il pensiero va a chi si batte per difendere territori contro grandi opere e relativi appalti; alla Val Susa e a chi vive questo territorio, quello che abbiamo sotto gli occhi, chi lo attraversa ogni giorno, per lavoro, per qualunque motivo. Infame e scellerato paese incapace di riconoscere crimini e criminali, chi lo difende da chi lo affossa, eternamente schiavo di economie infide, feroci, assassine.
Lasciamo le maledette rotonde alle spalle. Ci abbiamo messo un tempo infinito.
Ora da Agrigento a Ribera: una, una sola strada. Unica, intasata, lenta, lentissima, per questo o chissà quali motivi, procede senza interruzioni di continuità tra antichi templi, panorami empedoclini.
Così d’un colpo arriviamo a Giuseppe. E ci rapisce.
Ribera – Sciacca – Seccagrande – Ribera.
Avanti e indietro, per raccogliere mogli, figli, suocere, nonni, mare e collina.
È un pomeriggio per sciogliere il ghiaccio, rinunciamo a visitare per oggi aranceti e uliveti ma ne approfittiamo per attaccar tasselli e ricostruire.
E conosciamo la famiglia. E la famiglia conosce noi, i “milanesi”.
Liliana, è la moglie, la compagna di lavoro nei mesi di raccolta, calibra arance e pazienza quando Giuseppe parte per il continente. E quando Giuseppe è nel continente studia, cerca, si aggiorna, impara la lettura dell’olio, le storie dei vini del territorio, delle arance che coltiva, senza dar niente per scontato.
Giovanni, il figlio grande, 13 anni, parla con noi dei suoi viaggi in Italia, è curioso, divorerebbe metropoli, Catania, Milano. Ci racconta di una cosa che lo ha sconvolto, una volta, in Italia.
Nel mercato di una cittadina del Nord, una signora al fruttivendolo ha chiesto tre pere, tre e un’arancia, una sola, una arancia sola e lui, il fruttivendolo, gliela ha venduta, cioè, gliel’ha fatta pagare, 50 centesimi di euro. – “Le misure son diverse” – dice Liliana, – “qui andiamo a casse, una cassa, mimino, un’arancia…” – “Ce la tiri dietro” – pensiamo noi.
Se ognuna delle arance di Giuseppe venisse pagata 50 centesimi di euro le cose andrebbero in maniera diversa.
Conosciamo poco dopo un altro Giovanni, padre di Giuseppe, ha un ginocchio malmesso ma passa ogni giorno al lavoro in campagna.
Fu suo padre ad iniziare questa storia.
Nel 1906, emigrante in America, spedì mille e seicento lire alla famiglia a Ribera per comprare un ettaro di terra incolto, poco a poco cominciarono ad impiantare gli ulivi, poi gli agrumi e ad acquisire altra terra.
La zona di Ribera è florida, inaspettatamente ricca di acqua, il suolo è fertile, confortato dallo scorrere di fiumi e fiumiciattoli, Verdura, Magazzolo, Platani, Carboj.
Il mare è distante dagli aranceti quel che serve, la salsedine non intacca la pianta delicata ma in inverno è difficile che si arrivi sotto zero, è difficile che le basse temperature compromettano il lavoro di un anno.
Eppure questa terra soffre, non rende il dovuto a chi la lavora, è svalutata, non solo dalle infrastrutture, dalle strade che mancano, dalle difficoltà di comunicazione.
Le arance di Giuseppe, che costano una vita di sacrifici, vengono acquistate a 0,30 centesimi di euro dalla Grande Distribuzione, se va bene, e sono arance salvaguardate, sono d.o.p., Whashington Navel, biologiche (da sempre nei modi, ora anche certificate), sono frutti meravigliosi e generosi. Giuseppe a Milano vende le sue arance a poco più di 1 euro al kg, a domicilio, attraversando lo stivale almeno 6 volte a stagione. Sta costruendo il suo lavoro in modo nuovo su questi parametri. In ogni cassetta c’è un pezzo di viaggio tra Ribera e Milano, la strada maledetta tra Agrigento e Caltanissetta, un furgone rosso, una nave sul Tirreno, c’è un bussare continuo, un instancabile aprirsi di valichi, di percorsi, di occasioni.
Il giorno passa tra mille occasioni di riguardo nei nostri confronti, tra pranzi, cene e bagni.
Giuseppe si concede una mezza giornata e più di noi, a goderselo, Liliana e Giovanni, non ci credono a vederlo immerso nel mare Giuseppe.
Immerso nel mare è un contadino spaesato, fuori luogo, fuor di elemento.
La sera salutiamo la famiglia, i figli fino a notte nel campetto sulla spiaggia urlano imprecano gioiscono tirano rigori col sinistro. Il mare è un mediterraneo enorme che guarda al nord-africa tunzi.
Il giorno dopo ci spetta finalmente l’incursione nelle terre di Giuseppe Ciancimino.
In totale 9 ettari. Tra ulivi e aranceti.
Il lavoro di Giuseppe è un continuo via vai. Potatura per le arance, acqua per gli ulivi; per questo divora chilometri e chilometri.
Noi saltiamo al volo quando ci raggiunge, lo seguiamo.
Le arance sono in Contrada Scirinda, 350 metri sul mare.
Lì il padre è al lavoro per la potatura con il fratello Franco, tra le piante basse.
Sono ancora frutti piccoli e verdi, duri, molto lontani da quelli succosi e pieni che diverranno a metà novembre.
Intorno è uno splendore, aranci verdissimi, bassi ed estesi a perderci gli occhi; Ribera, cittadina gialla e immobile, incastrata bene in quel panorama smeraldo a destra.
Non ci aspettavamo tanta bellezza.
Tra gli aranci.
Cicale, una moltitudine scatenata di lucertole tra strada, muri a secco, mandorli, innumerevoli piante di elario o cocomero asinino (una pianta spontanea graziosa e malandrina – ti sputa addosso i suoi semi se la tormenti – e che qui trovi anche in riva al mare).
A ridosso delle piante un edificio semplice e spartano di tre stanze ospita i pochi macchinari necessari per smistare le arance, un muletto, un muro di cassette di plastica e due trattori cingolati. C’è un posto dedicato alla madre e alla sua cucina, alle grigliate, tra una vecchia credenza, un divano, una moto Yamaha da Enduro dei tempi d’oro di Giuseppe – “Io lo vedevo, arrivava a mare, cu’sta bella moto ‘ca rombava, bruuum, cu stu musu, ‘sti capiddi, mi faceva un’impressione…” – ci dirà Liliana guardando alla moto. È la ditta Ciancimino.
Mentre padre e zio potano gli aranci Giuseppe si muove per irrigare delle piante giovani di ulivi. Ha circa 4 ettari di ulivi, varietà Nocellara e Biancolilla. Piante bellissime, alcune secolari, scavate dal tempo, monumenti al lavoro dei Ciancimino.
L’olio ottenuto da queste piante è buono, lo riconosci. Le olive sono raccolte a mano e portate il giorno stesso della raccolta in frantoio, a Ribera, a un paio di chilometri dai campi.
La grande distribuzione paga quest’olio a 2 euro e 50 al litro, è un’altra vergogna all’italiana. Olio che poi finisce in bottiglia sugli scaffali della stessa GDO con etichette anonime, probabilmente mischiato ad altro olio di provenienza sconosciuta.
Da qualche tempo, consapevole dello spreco, Giuseppe prova a vendere con pudore il suo olio, come le arance, direttamente, porta a porta, a 7 euro al litro. Ma più della metà è ancora costretto a regalarlo alla GDO.
Prima di un pranzo in famiglia e alla brace tra le arance, Giuseppe ci porta a trovare un amico vignaiolo. Peppe Piazza si chiama.
Coltiva Insolia, Nerello Mascalese e Nero D’avola. Le vigne sono estese. La sua è una delle poche aziende vitivinicole del territorio anche se ci racconta di un mestiere di radici antiche proprio lì.
La sua azienda è circondata da un territorio felice, rigoglioso, vigneti, ulivi, ancora arance.
Il proprietario, del biologico, ne ha fatto stile di vita ma in un modo diverso da Giuseppe; figlio del medico condotto del paese, da uomo dotto e lungimirante trasformerà un bel caseggiato rurale di foggia ispanica in un agriturismo.
Ci mostra la vigna a tendone dell’Insolia, ci porge in assaggio il vino ottenuto da questo vitigno autoctono siciliano, il 2012, direttamente dal serbatoio refrigerato in acciaio. Sentiamo forti i profumi di agrumi, sembra buono. Lo proveremo in bottiglia.
La visita è breve, il padre e la madre di Giuseppe hanno allestito la brace e ci aspettano.
Offriamo un pezzo di carne cruda alla dea vespa che, con le socie, ci fan dono gradito di non mangiarci, anzi, proprio di snobbarci e per quel pezzo enorme divorato.
Il pranzo insieme è una festa rumorosa e movimenta di ragazzetti e bambini, mani che offrono, profumi, risate.
Siamo consapevoli che sia stata una visita troppo veloce per capire a fondo i Ciancimino.
La storia di Giuseppe e del suo lavoro sono un altro emblema di una trasformazione in atto, altrove, diversa, parallela da quella grande, certo pregiata, che attraversa da anni il sistema contadino contemporaneo, quello illuminato, fiero di dirsi rurale, degli agronomi, dei laureati, dei sostenitori del biologico, dei paladini del biodinamico tout court.
Giuseppe è lontano, più di lui lo è il suo territorio. Ma porta segni di cambiamento e rivolta, di strenua resistenza di certo.
Nell’Italia dei paradossi e dei vuoti pneumatici un territorio che poco ha goduto di riguardi, di scelte politiche sensate e proficue oggi costruisce la sua storia nuova più sulle spalle di Giuseppe Ciancimino, e sulla sua partecipazione a La Terra Trema, che su altro.
Non si vive mangiando lucertole, qualcuno lo ha detto.
Az. Agricola Riber Navel
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Ciancimino Giuseppe
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Ciancimino Giovanni
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