[DallaRete] La jeep, la Libia, il barcone: viaggio in Italia dal Corno d’Africa
La fuga dei migranti da Eritrea, Etiopia e Somalia verso l’Europa segue un itinerario preciso, dettato da agenzie sudanesi specializzate in traffico di esseri umani.
Il ruolo della diaspora e le aperture di Bruxelles al regime di Asmara.
.Il traffico di esseri umani sposa il libero mercato. Per chi vuole scappare dal Corno d’Africa – Etiopia, Eritrea, Somalia – oggi c’è una ricca offerta di servizi, tutti basati in Sudan. È qui che si è sviluppato il ricchissimo business dello sfruttamento dei migranti.A Khartoum una serie di agenzie offre viaggi in Libia e cerca di conquistare il maggior numero di fuggitivi snocciolando i numeri dei propri successi: mille, duemila persone portate in Europa, nessun naufragio, solo qualche disperso in mare. Per avere tanti clienti conviene garantire l’efficienza del servizio: non più infiniti passaggi di mano tra piccoli trafficanti dunque, ma un unico viaggio verso una destinazione certa in Libia, dove gli accordi con gli scafisti locali sono già siglati.
“In meno di una settimana si arriva sulla costa e dopo qualche giorno si sale sul barcone, spiega Amr Adam, attivista eritreo che vive in Italia e membro del Coordinaento Eritrea Democratica. “Niente stupri nel tragitto, altrimenti ci si rovina la reputazione e i rifugiati si rivolgono a un altro trafficante. Naturalmente per garantire l’efficienza bisogna abbattere i costi e il viaggio verso la Libia si fa in 40 su una jeep”. Pensa a tutto il trafficante, che di solito è della stessa nazionalità del migrante, perché è tramite i connazionali in patria che si costruisce la reputazione.I libici subentrano alla fine della filiera, per trasportare le persone attraverso il Mar Mediterraneo. “Ogni agenzia di trafficanti ha il suo ‘ufficio’ in una città della Libia”, racconta Adem. “La sede è in una villetta anonima, dove si arriva di notte e ci si infila dentro in 200. Quando è pronta la barca, si esce e si va sulla spiaggia, dove i motoscafi ritirano i migranti dieci a dieci per caricarli sulla barca. Ovviamente gli scafisti vogliono stipare il mezzo sopra ogni possibilità e alcuni si rifiutano di salire. Ma a quel punto i libici telefonano ai loro referenti eritrei, somali, etiopi e chiedono l’autorizzazione a sparare sui dissenzienti – autorizzazione che viene data prontamente”.
Caricati a forza sui barconi o presi in ostaggio dai beduini in Sudan, gli eritrei sono forse i migranti più disgraziati, perché non hanno scampo, in qualsiasi luogo della terra o del mare. Amnesty International stima che ogni mese 3 mila eritrei tentino di scappare dal proprio paese e sostiene che il regime di Asmara sia uno dei più dittatoriali e isolati del mondo. Non c’è libertà di espressione né di religione, gli arresti sono arbitrari e le torture “molto comuni”.
“In Eritrea l’università non esiste”, racconta Adem. “Invece della facoltà, a 18 anni devi scegliere in quale caserma andare, perché è lì che si studia: ci si addestra militarmente durante il giorno e si può leggere solo la sera”. In servizio tutta la vita. È questa la filosofia del dittatore Isaias Afwerki, presidente dal 1993, che in nome della guerra all’Etiopia fa vivere i suoi concittadini in uno stato d’assedio permanente.
“L’Eritrea è una specie di Stato militare, in ogni casa c’è un fucile, anche i ragazzini devono essere sempre pronti alla guerra”, continua Adem. «Non è un caso che in questi anni tremila eritrei ogni mese cerchino di scappare”. Lui è stato uno di loro. Magrolino, sguardo vivissimo, parlantina inesauribile, Adem racconta la sua esperienza senza toni drammatici, con estrema naturalezza. “La mia prima tappa è stata il Sudan, per attraversare il confine bisognava pagare 5 mila dollari e una macchina ti veniva a prendere”.
Semplice no? Peccato che per arrivare in Italia ci abbia messo più di tre anni, perché la cifra che aveva pagato non gli garantiva di essere scarrozzato fino al Mar Mediterraneo. Lungo il tragitto “classico”, attraverso il Sudan e poi la Libia, è stato venduto a vari trafficanti di esseri umani. In ogni tappa ha cercato un lavoro e ha provato a mantenersi, fino a quando ha capito che solo in Europa poteva avere una vita dignitosa.
Un’odissea che Adem ricorda quasi con leggerezza: “Certo, cos’altro dovevo fare? In Eritrea non c’è niente, anche l’elettricità è un lusso, per non parlare di gas e benzina che vengono venduti solo al mercato nero. Chi non rientra nelle categorie accettate dal presidente viene messo in galera. Negli anni Novanta erano i musulmani a essere purgati, adesso sono i gruppi evangelici cristiani, ma in realtà è solo chi non si allinea al potere che viene punito”.
Gli eritrei che vorrebbero scappare sono centinaia di migliaia. Ora che la geopolitica dell’Africa è cambiata il loro viaggio è diventato più semplice, racconta Adem. “Adesso il traffico degli essere umani è molto ben organizzato e molto più efficiente”. Adem è un punto di riferimento per la diaspora eritrea e viene continuamente informato dai parenti dei rifugiati sugli “inconvenienti” che avvengono nel tragitto verso l’Europa.
“Vedi?” mi mostra una foto sul telefonino: sono 4 bambini, la più grande avrà 12 anni. “Questi ragazzi sono scomparsi insieme alla loro madre. Si erano imbarcati in questi giorni e la zia dal Sudan li sta cercando. Io sto facendo il possibile ma non credo che li troveremo”. Il mare oggi è più pericoloso del deserto, dove i transiti avvengono più velocemente del passato.
“Prima il punto di smistamento era a Kufra, in Cirenaica, dove i migranti venivano affidati a vari gruppi libici e non si sapeva mai se e quando sarebbero salpati. Adesso invece il centro di gravità è Khartoum, la capitale del Sudan. È lì che c’è il mercato dei fuggitivi. Arrivano soprattutto da Etiopia, Eritrea, Somalia, ma anche da Bangladesh, Pakistan, Siria…”.
Il prezzo per arrivare da Khartoum alle coste libiche è di duemila euro, che poi possono gonfiare a seconda delle mazzette che si devono pagare per strada. Sarà solo sulla costa mediterranea che i migranti passeranno nelle mani di un libico. Le organizzazioni che gestiscono l’ultimo tratto, quello in mare, si prendono 500 dollari a persona. I soldi arrivano direttamente dal trafficante e non dal migrante, che alla partenza ha pagato un pacchetto completo.
Al telefono, naturalmente, i due parlano in codice. Dicono “ho 200 cartoni d’arance” e l’altro risponde “vedo se ho il magazzino vuoto”. Facendo il conto, 500 dollari per 250 persone fa 125 mila dollari a viaggio. Le tasche dei trafficanti, sia libici sia eritrei, sono piene. Ma gli scafisti che guidano la barca, spesso, sono morti di fame. “I libici spesso assoldano un tunisino o un egiziano che vuole emigrare e non ha i soldi” spiega Adem, “ma un po’ sa guidare la barca e gli offrono il viaggio gratis”.
Gli altri, quelli che pagano, di solito fanno arrivare i soldi dai loro parenti all’estero. Migliaia di euro che viaggiano in contanti, tramite amici che possono consegnarli o money transfer. In Sudan, come in Libia, le banche non servono. Ma la tecnologia sì: i trafficanti eritrei organizzano i viaggi al computer, smistano i flussi e rimangono dietro la scrivania, mentre i loro scagnozzi guidano le jeep attraversando il deserto.
Il traffico funziona particolarmente bene nella parte della Libia governata da Tobruke in particolare nell’area di Bengasi, là dove si sono viste sventolare le bandiere dello Stato islamico (Is). Secondo alcuni testimoni i gruppi affiliati all’Is hanno migliorato la condizione dei migranti, perché gli procurano un business troppo remunerativo. Se prima in Libia gli stranieri venivano reclusi in condizioni disumane e dopo la guerra veniva loro rifiutato anche il tozzo di pane, adesso i jihadisti li difendono e si arrabbiano con chiunque li maltratti.
Eppure a metà aprile i fondamentalisti libici hanno pubblicato un video in cui decapitavano 15 “habeisha”, termine usato per indicare le popolazioni cristiane di Etiopia ed Eritrea. Padre Mussie Zerai, cattolico eritreo, ha lanciato l’allarme: “etiopi ed eritrei sono i primi obiettivi dei libici perché in maggioranza cristiani”. Ma c’è un’altra ipotesi che potrebbe giustificare questa strage, come quella dei copti egiziani. Gli omicidi avvengono come rappresaglia contro quei governi che osano sfidare l’Is. Stati come l’Etiopia, che combatte contro al Shabaab in Somalia, o l’Egitto, che colpisce i beduini del Sinai affiliati allo Stato Islamico.
Quel che è certo è che molti cristiani, dal Corno d’Africa ma anche da Ghana, Nigeria, Ciad, riescono ad imbarcarsi per l’Europa. “Gli eritrei che stanno arrivando adesso provengono dai campi profughi in Etiopia”, spiega Adem, “dove ottengono lo status di rifugiati e poi tentano di partire per il Sudan. Essere respinti nel territorio di Addis Abeba, infatti, è assai più vantaggioso che essere rispediti in patria, dove il presidente Afwerki – ufficialmente marxista – gli imporrebbe il carcere duro. Nel suo delirio di onnipotenza il dittatore si era fatto un unico amico: Muammar Gheddafi. Con la caduta del Colonnello, è rimasto a corto di benzina e di aiuti economici e la condizione della popolazione è ulteriormente peggiorata.
Per questo motivo oggi a partire non sono solo i giovani maschi, ma anche intere famiglie, donne con tre o quattro figli che preferiscono rischiare la morte pur di dar loro una chance di futuro. Eppure le denunce delle associazioni per i diritti umani sono respinte come “complotto imperialista” dal presidente eritreo, che non si limita a imporre il suo controllo totale su chi vive nel suo paese, ma anche su chi emigra. La rete di Afwerki si estende anche nelle città italiane, dove, racconta Adem, “consolati e ristoranti eritrei fanno causa comune per controllare la diaspora e chiedere a ciascuno una tassa del 2% sui redditi. Se non si paga, i parenti rimasti in patria sono sottoposti alle rappresaglie del regime. E chi si esprime contro il presidente rischia grosso”.
Forse è per questo che anche tra gli emigrati sono tanti i sostenitori del regime: «Affermano di essere orgogliosi di appoggiare chi nel loro paese è in difficoltà», spiega Dania Avallone, dell’Associazione per i diritti umani del popolo eritreo, «e di voler aiutare il loro Stato perché la pubblica amministrazione affronta dei costi per i documenti che deve produrre per la diaspora. In realtà la diaspora eritrea è facilmente ricattabile da una rete di spionaggio costituita da fanatici del partito del premier, sedicenti mediatori culturali e pseudointellettuali che si inseriscono nelle istituzioni pubbliche e private italiane».
L’Unione Europea sta per firmare con l’Eritrea l’undicesimo accordo di cooperazione nell’ambito del Fondo europeo per lo sviluppo, che prevede un pacchetto di aiuti di 312 milioni di euro da qui al 2020. L’Italia, che ha mandato il viceministro degli Esteri Lapo Pistelli nel paese come rappresentante dell’iniziativa Ue, contribuirebbe con 2,5 milioni di euro.
L’Unione Europea parla di un’apertura del governo di Afwerki, che avrebbe riconosciuto l’esistenza di un “problema di emigrazione” e accettato di approvare una norma che limiti a 18 mesi il servizio militare. Ma non c’è nessuna prova che Asmara abbia intenzione di riformarsi, mentre i cadaveri in mare dimostrano che gli eritrei continuano a fuggire.
Secondo il Rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione 2014 della Fondazione Leone Moressachi fugge in Europa abbatte di 16 volte il tasso di mortalità dei propri figli e aumenta di 15 volte il proprio reddito. In Italia gli immigrati contribuiscono al pil con 15.6 miliardi di euro l’anno, mentre costano alla collettività 12.4 miliardi. Il saldo è positivo.
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