Disobbedire godendo: prendersi il proprio tempo
we experiment idleness as a duration pregnant with necessity
taking time means to displace the potentiality of value realisation
taking time is to have time being the utopian horizon of space (utopia: no place, no single charged venue of happening)
Manifesto of polyorgasmic disobedience
Giulia Palladini
Scioperare: ex-operare, non lavorare, distrarsi dalle proprie faccende. Questa l’etimologia di una parola complessa, sciopero, che il lungo lavoro di Non Una di Meno sta tentando di risignificare, a partire dall’esperienza concreta delle donne e di tutte quelle soggettività che si trovano spesso escluse dal mondo del lavoro, o incluse in maniera differenziale, e, quindi, escluse anche dalla possibilità scioperare (per non parlare di chi, pur lavorando, non ha diritto allo sciopero). Molte le riflessioni e gli spunti, che potete trovare nei report dei tavoli del 4 e 5 febbraio a Bologna e nei favolosi 8 punti per l’8 marzo ma qui vorrei provare a concentrarmi su uno in particolare, simbolico ma anche molto materiale: oggi non lavoro, godo! e legare sciopero e masturbazione.
Vorrei pensare lo sciopero come un momento di eterotopia, in cui sottrarsi al lavoro (soprattutto a quello del genere) per immaginare nuove forme di relazione con sé e con altr*, in cui provare a sovvertire le norme di genere che tengono in vita il patriarcato fornendo sempre nuova linfa alla violenza, in cui sperimentare gesti e posture da portare con sé. Immagino lo sciopero come un modo di prendersi del tempo per sé, non come individualismo, ma come tempo in cui raccogliere le forze e trovare nuovi passi per poi camminare insieme. Uno sciopero che sappia essere un momento di condivisione, pubblico e potente, ma anche di riflessione intima, di un’intimità politica perché consapevole strumento di sovversione.
Ed è per questo che penso ad uno sciopero che assuma come simbolo (e come pratica) la masturbazione: un gesto capace di scardinare sia la produzione che la riproduzione, un gesto sfaccendato eppure carico di significato e di potere. La masturbazione, infatti, agisce alle fondamenta del potere patriarcale, mettendo in scacco una sessualità pensata solo per essere riproduttiva e, quindi, solo eterosessuale e penetrativa. Un atto che troppo spesso è stato ed è negato alle donne, considerate prima streghe, poi isteriche, poi ninfomani; un atto taciuto e che diventa potente se rivendicato. Prendersi il tempo della masturbazione per conoscersi, per riconoscere il proprio piacere, improduttivo, egoistico, dirompente, indipendente, e per tenerlo come punto fermo anche per essere in grado di riconoscere la violenza, la costrizione, l’imposizione.
Prendersi il tempo anche di decostruire la propria sessualità: provare a dislocare gli organi genitali, scoprendo nuove e inaspettate zone erogene, inventare corpi nuovi, con diverse priorità e diversi respiri, mescolarsi a sé e alle tecnologie, dando spazio a inedite alleanze con le macchine e gli oggetti, caricandoli di un valore d’uso che eccede qualsiasi scambio. Una masturbazione che scioperi anche dall’abitudine, diventando imprevisto: un’esperienza di differenza e identità con se stesse che possa diventare matrice di un rapporto con altr* altrettanto imprevisto e imprevedibile. Riscoprire il corpo come una situazione, un divenire, un impasto di carne, desideri, luoghi inesplorati e inattesi, e da lì ripartire per guardarsi intorno con occhi nuovi, ricchi di meraviglia.
Scioperare godendo di sé non per sottrarsi allo spazio pubblico, richiudendosi in un privato solipsistico, ma per mettere in discussione le barriere tra pubblico e privato: riconoscere le origini strutturali della violenza, infatti, significa anche vedere all’opera quella struttura non solo dove è eclatante e drammatica, ma anche in tutti quei gesti che fanno dei nostri corpi (vari e molteplici) luoghi di vergogna, di mortificazione, di rinuncia. E allora dedicarsi al proprio piacere è anche uno dei modi per mettere un granello di sabbia negli ingranaggi di questa struttura, per sperimentare una gioia da trattenere e ricercare, un godimento in atto, non potenzialità futura, che possa essere il calco di una felicità pubblica, slancio di un desiderio erotico di non sovvertire soltanto se stesse, ma anche il mondo. Riappropriarsi del proprio piacere perché se sono i nostri corpi ad essere picchiati, violentati, mercificati, nei nostri corpi troviamo anche i semi della resistenza. Ripartiamo dal piacere, in tutte le forme che vorrà e potrà assumere, perché a muoverci è il desiderio di costruire spazi e tempi in cui possa crescere, moltiplicarsi, contaminarsi. Teniamo il piacere come un punto fermo al quale non rinunciamo e del quale vogliamo che non una di più venga privata.
La masturbazione nel tempo dello sciopero ci può servire a ricordarci che non chiediamo un’inclusione in quelle maglie che ci opprimono, in una società che si fonda sulla violenza, ma che vogliamo allargare il punto in cui quelle maglie non tengono, traendo forza dalla nostra capacità di godere e condividendola con altr*, gioiosamente. Si tratta dell’entusiasmante e doloroso paradosso di tenersi strette a sé e alla propria potenza per lottare per essere davvero non una di meno, consapevoli di poterlo fare soltanto in un costante movimento che ci lega a* altr*: il tempo di godere di noi ce lo diamo insieme ed è già politica nel momento in cui diventa un tassello di una lotta che guarda al futuro strappando pezzi di felicità nel presente.
Gioconda Belli scrive: “Voglio uno sciopero dove incontrarci tutti/ Uno sciopero di braccia, di gambe, di capelli,/ uno sciopero che nasca in ogni corpo”. E questo è il mio augurio per l’8 marzo: che sia uno sciopero che faccia di ogni corpo un luogo di godimento disobbediente e sovversivo, insieme ad altri corpi, insieme ad altri gesti.
Colonna sonora suggerita: Ain’t got no, I got life – Nina Simone
Lo trovate anche su Effimera
di Carlotta Cossutta
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