Smagliature digitali – Un viaggio, tra teoria e pratica, nella nuova ondata femminista
Smagliature digitali nasce da una relazione analogica e digitale tra quattro autrici che, oltre a essere attiviste, femministe e ricercatrici, vivono l’intersezione tra le tecnologie e i corpi come un punto di partenza per confrontare i propri saperi situati. Il libro, sin dalle sue prime pagine, esprime anche un’esigenza, forse più nascosta ma non meno importante, ossia quella di condividere con un pubblico più ampio le riflessioni emerse ai margini per creare le condizioni di un dibattito che non può prescindere dalla lettura di alcuni scritti ancora poco diffusi in Italia, se non in ambito accademico.
Stiamo assistendo e vivendo, non senza un certo piacere, l’emergere di un nuova ondata di femminismo che si è resa più visibile a partire dal movimento Non una di Meno, nato in Argentina nel 2015, e diffusosi in Italia pochi mesi dopo. Si parla di quarta ondata perché ciò che lo distingue dai movimenti precedenti è innanzitutto un maggiore approccio inclusivo e intersezionale che vede dialogare, non senza grande sforzo di mediazione, femminismo storico, centri anti-violenza, collettivi femministi di nuova generazione, collettivi transfemministi e queer e collettivi legati ai centri sociali. Ma ciò che la caratterizza di più e la differenzia rispetto alle precedenti esperienze, è la relazione con le tecnologie digitali, a partire dai mezzi di mobilitazione utilizzati, in particolare i social network e internet per organizzare gli interventi nelle strade, per la comunicazione di gruppo, e per diffondere il messaggio oltre i confini dell’attivismo.
Le pagine del libro ci accompagnano in un viaggio a cavallo tra la produzione teorica, riflessioni personali e sperimentazioni pratiche di un femminismo contemporaneo che potenzia la sua capacità di crescita attraverso l’utilizzo di strumenti digitali, e allo stesso tempo riesce a guardare con capacità critica quegli stessi strumenti tecnologici di cui fa uso.
In questo contesto lo sguardo delle curatrici, transfemminista e queer, diventa una prospettiva privilegiata perché più ricettiva nell’individuare la complessità del presente. Così come la semplificazione binaria che divide maschi e femmine nasconde una costruzione sociale arbitraria che adatta i corpi all’ordine sociale stabilito; allo stesso modo la relazione che abbiamo con le tecnologie diventa trasparente, quasi scontata, da farci dimenticare la sua genealogia e i passi che ci hanno portato fino a qui; ancora di più oggi che siamo equipaggiati volontariamente di un mini computer portatile, sempre connesso alla rete, dotato di sensori che inviano costantemente dati sui nostri comportamenti, dati biometrici e ambientali, a cui qualcuno, prima o poi darà un senso.
Tra i vari capitoli del libro, particolarmente centrale la comparazione tra i tre manifesti che hanno ripensato il rapporto tra corpo, lavoro e tecnologia e che negli anni hanno creato accesi dibattiti in vari contesti, fornendo alcune parole chiave per aiutarci a ri-orientare il nostro immaginarci il futuro per decidere come agire nel presente. Tradotto e uscito in italiano nel 1995, il Manifesto Cyborg di Donna Haraway (1985), è uno dei primi esempi in cui si riflette come i corpi femminili possono usare la tecnologia invece di farsi usare da essa a partire dalla consapevolezza che la realtà della vita moderna è caratterizzata da una relazione così intima tra persone e tecnologia che non è più possibile dire dove finiamo noi e dove iniziano le macchine. Ispirato dalle intuizioni di fine millennio del filosofo inglese Nick Land, il Manifesto per un politica accelerazionista pubblicato nel 2013 da Alex Williams e Nick Srnicek propone di intensificare l’automazione del lavoro, così che siano robot a svolgere le occupazioni più alienanti e ripetitive, e superare la nostalgia per un’età dell’oro del capitalismo “dove il lavoratore (maschio) otteneva uno standard di vita minimo e sicuro, in cambio di una noia mortificante e di repressione sociale. Tale sistema si appoggiava a una gerarchia internazionale fatta di colonie, imperi, e periferie sottosviluppate; una gerarchia nazionale di razzismo e sessismo; e una rigida gerarchia familiare di sottomissione femminile”. Sino ad arrivare al Manifesto Xenofemminista di Labora Cubonkis (2015), collettivo di teoriche, artiste e ricercatrici, che raccoglie l’eredità di entrambe i manifesti e si spinge anche oltre.
Ed è però nel terzo capitolo attraverso il racconto di un workshop di autocostruzione di sex-toy per trans che risulta evidente come nello spazio della creazione, nel contatto diretto con le pratiche dell’hacking, il rapporto con la tecnologia diventa un processo più trasformativo, di costruzione di consapevolezza. E’ importante notare come questo non accada solo nel contesto dello spettro delle corporeità trans, ma è valido in presenza di qualsiasi tipo di diversità e mette al centro l’individuo e le sue possibilità nella vita quotidiana in relazione con la tecnologia. I processi di apprendimento orizzontali diventano pratiche politiche di empowerment, dove i corpi non sono passivi fruitori di tecnologia ma attivi creatori di dispositivi che ri-significano le relazioni.
Se “Dal forno a microonde, al telefono, alla pillola anticoncezionale, alla robotica e ai software, la tecnologia ha un ruolo nella strutturazione dei ruoli sociali, e l’emarginazione delle soggettività che non aderiscono alla norma cis-etero-bianca da parte della comunità tecnologica ha una profonda influenza sul contenuto, il design, la tecnica e l’uso di artefatti tecnologici.” (p.11); allora la capacità di ri-appropriarsi delle competenze tecnologiche assume tutto un altro significato perché diventa luogo in cui iniziare a costruire una società possibile.
Le smagliature sono una metafora che riesce a rappresentare le inconsistenze, le fessure, gli strappi, i glitch che sempre più spesso vediamo emergere dalla narrazione del progresso tecnologico mainstream che vuole sembrare uniforme, lineare intrecciata e sostenuta dai rapporti di subordinazione che tengono insieme la società. Quell’esperienza forzatamente frictionless, senza attrito e senza sforzo, a cui tende lo storytelling di tutte le tecnologie si rivela invece fatta di corpi, la cui pelle non tiene più, perché la sua elasticità è stata forzata da eventi che l’hanno spinta ai limiti della sua resistenza rivelando spazi attraverso cui le relazioni di potere possono essere contestate.
Smagliature digitali diventa quindi una raccolta indispensabile perché guarda alle teorie e pratiche del più recente passato per ripensare la nostra azione presente e futura alla luce di una percezione della tecnologia che stiamo facendo diventare permeabile alle necessità di corpi consapevoli.
By Zoe Romano
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Brave, molto interessante!