La mia Onda
Nel 2008 gridavamo “Noi la crisi non la paghiamo” e invece dieci anni dopo la stiamo ancora pagando tutta.
Per questo, perché si tratta, guardando con gli occhi esterni, del racconto di un fallimento, non è facile provare a parlare dell’Onda. E poi perché si rischia sempre di cadere nel reducismo, nel resoconto stantio di un’esperienza conclusa e in quanto tale incomprensibile e noiosa per chi viene dopo. Ma gli anniversari sono anche un modo per fare dei conti e possono essere un’occasione di riflettere su qualcosa, con la calma del dopo, che permette di vedere quello che non si poteva osservare vivendolo.
L’Onda nasce per contrastare la riforma Gelmini, ma sarebbe meglio parlare del duo Gelmini-Tremonti, perché la riforma viaggia di pari passo, anzi, insegue, una finanziaria che taglia fondi in tutti i settori dell’istruzione, dalla scuola d’infanzia all’università. Una finanziaria approvata d’urgenza in estate a cui si affiancano provvedimenti presi per decreto, pronti a diventare legge. Immediatamente si mobilitano le scuole elementari, colpite dall’introduzione del “maestro unico” e dei voti numerici (come accade anche alle medie) e dall’innalzamento dei numeri di bambin* per classe, seguono le scuole superiori, che vengono riorganizzate in nuovi indirizzi e a cui vengono tagliate ore di lezione, e infine arriva l’università, sottoposta a tagli per 1.500 milioni di euro e a una serie di cambiamenti. Mi concentrerò su quest’ultima, perché è la lotta che ho attraversato, ma non vorrei dimenticare questo quadro complessivo che ha messo insieme maestre, genitori, professori, ricercatrici, ragazzi e bambine.
Nel tentativo di restituire la ricchezza di un movimento così composito ci si scontra subito con i limiti della memoria e dei suoi supporti. Nel 2008 internet era già il primo veicolo di comunicazione (nel corso dei mesi di mobilitazione si moltiplicano le mailing list a dismisura), ma era un’internet diversa, che ora quasi non esiste più. Andando alla ricerca di documenti ci si imbatte in domini di siti scaduti, pagine non trovate, pochissime immagini rispetto alla proliferazione che ci accompagna oggi, ma soprattutto si realizza, di nuovo, la scomparsa di Indymedia, che tanto raccoglieva di quel fermento. E questa potrebbe sembrare una nota a margine, ma interessante per illuminare la difficoltà di costruire una storia di noi stesse, raccontata da noi, che possa sfuggire al duplice rischio della scomparsa o della narrazione altrui. E allora, in qualche modo, questo anniversario dell’Onda mi invita a invocare archivi e memoria, non per fissare il passato in un cristallo immobile, ma per tracciare il nostro cammino.
L’Onda è nata in medias res, dato che la finanziaria e i decreti collegati erano stati presentati e votati in estate, mettendo tutti e tutte, all’inizio dell’anno scolastico, di fronte al fatto compiuto. Ma l’Onda è anche cresciuta in fretta: dalle prime, semiclandestine, assemblee in estate, a quelle più corpose di settembre. Ma a Milano il momento di svolta sono stati gli Stati Generali: il 21 ottobre 2008. Era il giorno dopo il mio compleanno e io scontavo ancora un vago hangover. Ero stata scelta, insieme ad un altro compagno, per moderare gli interventi dell’assemblea che avrebbe raccolto tutte le componenti universitarie, dai professori alle amministrative, dagli studenti alle ricercatrici. La scelta era caduta su noi due principalmente perché non appartenevamo a nessun gruppo o collettivo preesistente, e già questo dice molto di un movimento capace di compattare e raccogliere persone con le provenienze più diverse. Io ero una cagna sciolta, anche perché ho sempre sentito stretta ogni forma di appartenenza, e come tale potevo essere una buona mediatrice, accettata da tutt*. Ecco, io ricordo la frenesia dei preparativi, tesi fino all’ultimo secondo, e poi ricordo di essermi voltata e avere visto un’aula magna stracolma, piena di voci, di gente, di facce diverse.
E da lì un turbinio di cortei non autorizzati, lezioni in piazza, occupazioni di binari, volantinaggi alle macchine ferme in fila per i nostri cortei che ci applaudivano, cicli di autoformazione, irruzione nel Senato Accademico, incontri con professori, e pochissime ore di sonno. Un turbinio apparentemente caotico ma che nel suo farsi dava vita, immediatamente, ad un’altra università, ad un altro modo di attraversare i chiostri, di conoscere le persone, di ascoltare le lezioni. Di fianco al rifiuto della riforma e dei tagli, infatti, c’era tutta una parte di desiderio di imparare in maniere diverse, di trasmettere e ricevere i saperi in modi differenti: e allora questionari sulle lezioni, tentativi di proporre altre riforme, alleanze (troppo poche purtroppo) con professoresse di ogni materia per spostare le lezioni in piazza e per cambiarne i contenuti. Un fermento tutt’altro che acefalo, ma con moltissime teste, che partivano allo stesso tempo da una riforma devastante, di cui continuiamo a pagare le conseguenze, anche perché nessun governo ha mai revocato i tagli, e da un malessere più generale, una capacità di leggere l’orizzonte e le linee che da esso partivano e di vedere come la crisi che arrivava si annunciasse un modo per acuire disuguaglianze e ingiustizie. Troppo presto, forse, prima di altri moti simili, oppure troppo fragile e giovane per reggere alla sconfitta dell’approvazione, in gennaio, della riforma.
L’Onda non ha saputo, o non ha potuto, darsi modi per reggere l’urto, ma sicuramente ha dato modo ad una strana generazione di esprimersi: una generazione già precaria in partenza, ma ancora molto vicina a chi aveva vissuto l’illusione che la precarietà fosse un destino evitabile, una generazione che sentiva sulla sua pelle una serie di riforme che, a partire da quelle per l’istruzione, sceglievano di tagliare sul loro futuro. Lo slogan “se ci bloccano il futuro noi blocchiamo la città”, allora, era sì uno slogan, ma anche un tentativo di dire quel muro che ostruiva le possibilità che ci veniva costruito intorno. Un muro fatto di appelli alla meritocrazia e all’eccellenza, al rigore e all’austerità che nascondevano il tentativo, riuscito, di trasformare le difficoltà in una colpa e di rendere ancora più forti le disuguaglianze nascondendone l’origine. Un muro di cui oggi vediamo i frutti più pieni.
L’Onda è stata fondamentale nelle biografie di tant*, che in quei mesi hanno sperimentato la potenza dell’agire collettivo, con così tanta forza che il contraccolpo di vederla sconfitta è stato forte. Oggi molt* di quell* con cui ho condiviso le piazze e le strade sono altrove, sia geograficamente che politicamente, ma non posso che sperare che conservino una scintilla di quella potenza pronta a divampare di nuovo. E l’università (ma anche la scuola) sono sempre più quel regno dell’individualismo, delle procedure, delle gerarchie che la ormai strutturale mancanza di fondi non può che esacerbare. Ma se chiudo gli occhi un istante ci rivedo lì, in 300.000 di fronte a Montecitorio il 14 novembre, e non posso che sperare che questo anniversario possa essere un’occasione per guardare al presente forti di questa storia, fallimentare (ed è giusto ribadirlo), ma che ancora ci dice qualcosa sull’oggi e le sue storture.
Carlotta
Foto in copertina by Andrea Pagliarulo
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