Liberarci dal carcere? Intervista a Massimo Pavarini.
Pubblichiamo un interessante intervista comparsa sul Manifesto il 26 aprile di Eleonora Martini al Professor Massimo Pavarini.
Professore ordinario di diritto penale e diritto penitenziario all’Università di Bologna, Pavarini affronta il tema della pena nella società di oggi, parlando di cultura “patibolare” che al reato contrappone esclusivamente la pena e ragionando sull’utilizzo del carcere oggi.
Risulta interessante e ricca di spunti la riflessione che viene svolta, non limitandosi a parlare di funzione rieducativa del carcere e funzione preventiva ma cercando di ragionare ex ante sulla stessa cultura della pena e sulla possibilità di alternative ad essa.
Per rendere più agevole la lettura, si è cercato di sottolineare i punti chiave del ragionamento aggiungendo il “corsivo” ad alcune frasi.
“Nemmeno i padri costituenti seppero trovare un’alternativa al carcere. E alla pena contrapposta al reato”. Di certo non sfuggì, ai padri costituenti della Repubblica italiana, l’importanza della questione giustizia e carcere nella costruzione e nella tenuta di una democrazia.
Eppure si accorsero quasi subito che non sarebbero stati capaci di sovvertire completamente quell’abominio che avevano conosciuto e patito nel Ventennio perché non sapevano trovare un’alternativa a quello che Massimo Pavarini, docente di Diritto penitenziario all’università di Bologna, definisce la “cultura patibolare”. Una cultura da cui non è esente nemmeno la sinistra marxista.
Professore, nel giorno della Seconda marcia radicale per l’amnistia, la libertà e la giustizia, non a caso legata al 25 aprile, ci spiega perché nella democrazia moderna le carceri non si sono evolute poi così tanto da quelle di regime?
Nel marzo 1949 la rivista “Il Ponte” diretta da Pietro Calamandrei dedicò il numero tre alle memorie dei grandi della Resistenza: c’erano Calamandrei, Calo Levi, Riccardo Bauer, Vittorio Foa, e poi Ghisu, Spinelli, Pajetta, Salvemini, Parri, Ernesto Rossi, Adolfo Banfi, insomma una bella compagnia di persone che erano passate per il carcere durante il Ventennio.
Rileggendo quel numero si notano un paio di cose: tutti riconoscono che il carcere di allora non era poi così diverso da quello fascista che avevano conosciuto. Tutti ricordano di aver giurato a loro stessi, quando erano detenuti, che semmai un giorno avessero ricoperto ruoli di potere avrebbero fatto qualsiasi cosa per cancellare quella vergogna.
E però tutti sono costretti a riconoscere – nel 1949 – di non aver fatto ancora nulla. C’era in quell’élite intellettuale e politica già allora la consapevolezza di non avere idee alternative. È vero, eravamo solo all’inizio della democrazia, anche se l’articolo 27 della Costituzione c’era già, ma tra una sinistra che sognava ancora i campi di lavoro sovietici e i fautori di un riformismo asfittico, molto distante da quello d’ispirazione anglosassone, c’era una totale mancanza di cultura giuridica. In sostanza, si delineava una situazione paradossale: pur considerando quella pena inaccettabile e scandalosa, non riuscivano a uscire dalla cultura della pena.
Si poteva migliorare il carcere ma non sovvertirlo…
Secondo me questa è una cosa su cui non abbiamo mai riflettuto abbastanza e che segnerà poi definitivamente la nostra storia, il pensiero progressista e in particolar modo quello marxista: proviamo orrore rispetto a una penalità che non recupera, non integra, ma esclude. Però non vogliamo ammettere che non troviamo alternativa a quella che io chiamo una cultura patibolare, che non può avere anticorpi rispetto alla penalità. Il fatto che, come spesso succede, i portatori di questa cultura patibolare vorrebbero far subire la pena ad altri e non ai propri – magari ai padroni e ai capitalisti per le loro ignominie e non al proletariato – non cambia nulla. E il problema è questo: noi non ci muoviamo da questa cultura patibolare che al reato contrappone la pena. Perfino la sinistra l’ha assorbita, perché la cultura marxista l’ha ereditata dall’idealismo.
Da cosa dovremmo liberarci?
Dall’idea che dare sofferenza possa avere anche una funzione positiva, purificatrice. Dalla coincidenza di significato tra sofferenza e punizione. Certo, è una cultura che ha radici antichissime e che non appartiene solo all’occidente. Ovviamente poi la storia della penalità, che è intessuta dei valori simbolici del sacrificio e dell’espiazione, tipica del capro espiatorio, si trasforma negli anni, ma senza negare quell’origine. Però secondo me l’approdo a questa idea della pena come salario del peccato e della colpa si colloca nella creazione degli Stati. E ora si può dire che siamo fermi al mondo un po’ rischiarato dall’analisi di René Girard. Certo si può fare un carcere più civile, con più luce, più biblioteche, lo si può fare alla svedese – e non si è fatto – ma comunque non ci si allontana dal principio che al delitto e al peccato si risponda con un’azione volta a determinare sofferenza.
E lo Stato ha il monopolio di questa sofferenza…
Beh, nel mito teomorfico, la Patria, lo Stato, il monarca sono concepiti ad immagine e somiglianza di Dio quindi lo stato ereditando il ruolo della sacralità detiene il regime monopolistico del castigo con finalità di espiazione. L’altro passaggio cruciale è che lo Stato nel suo tentativo di laicizzarsi, di spogliarsi da questo elemento di sacralità, vede la pena in una logica di difesa sociale come strumento di controllo di un problema. Quando si parla di criminalità, di recidiva, eccetera, si fa teoria della prevenzione. Sotto la bandiera della prevenzione, che sembrerebbe la teoria della laicizzazione, io credo che si siano consumati i più terribili delitti.
La pena che educa, come prevenzione del reato?
Che cos’è la prevenzione? Quello che oggi chiamiamo un approccio geopolitico alla questione: bisogna governare le masse, le moltitudini e per farlo bisogna utilizzare la risorsa repressiva. Non più per adempire alla funzione catartica del sacrale come nel passato ma, perché sia accettabile, per perseguire scopi di utilità. Ecco qual è la seconda grande sconfitta: gli scopi di utilità sociale, che soli legittimano la pena in una democrazia moderna, devono prevenire la criminalità, ridurre la recidiva. E sono tutti scopi fallimentari: la pena non ha mai mostrato di poter perseguire questi scopi, serve invece a creare distanza sociale, a verticalizzare i rapporti. È la “Gazzetta” della moralità media, serve a riaffermare i valori dei consociati: sono queste le funzioni materiali della penalità.
Qual è l’alternativa alla cultura della pena?
Intanto prendiamo atto che nelle nostre costituzioni non si racconta tutto questo. Non diciamo che la pena serve a creare distanze sociali, a verticalizzare i rapporti, a escludere e non a includere. Né diciamo che il carcere è pratica di inclusione sì, ma non nei confronti del soggetto a cui somministriamo la pena ma nei confronti della società, degli “onesti”.
Solo che a questo punto la massa da escludere socialmente si è molto estesa e il carcere è diventata una pattumiera sociale…
Perché si è arrivati a questo punto?
Perché lo stato moderno utilizza il carcere come strumento di regulation of the poor e non come strumento della penalità. La sua esigenza è distinguere tra povertà colpevoli e incolpevoli, tra povertà meritevole che lo stato sociale aiuta – le donne, i bambini, gli infermi – e una povertà colpevole che è teppaglia da stigmatizzare come diversa. Il carcere adempie a quella funzione, come diceva Focault, di trasformare una illegalità diffusa in una illegalità selezionata che appunto adempie alla funzione di capro espiatorio dell’intero sistema.
Eppure adesso sembra si sia adottata un’altra tattica: con l’introduzione di sempre nuove fattispecie di reato diventano illegali alcuni stili di vita diffusi, vedi il caso dell’uso delle droghe…
Ha preso proprio la norma più indicata di tutte: la funzione della guerra alla droga reaganiana è proprio quella di stigmatizzare una certa condotta giovanile metropolitana, inizialmente diffusa in strati sociali bassi. Perché è così importante tanto da farne una guerra? Perché la droga veicola un messaggio simbolico di non inclusione: di gente che vive nella cultura dello sballo, dell’edonismo, eversiva perché contraria all’etica del lavoro… è per questa sua forte carica simbolica che la si combatte tanto da diventare il motore di tutte le politiche criminali.
Colpire chi fa uso di stupefacenti significa salvaguardare il profitto?
È qui che viene riconfermata la funzione geopolitica di lotta alla povertà. La povertà va sempre riprodotta distinguendo ciò che è accettabile allo stato sociale come stato inclusivo e ciò che deve diventare un nemico. Il nemico va creato, riprodotto. Sicuramente la droga è il grande strumento della creazione del nemico interno, colui che non può essere incluso. È per eccellenza la legislazione che qui come in America ha creato un nemico interno. E per produrre handicap nuovi in questi soggetti già segnati da svantaggi, per determinare ancora più distanza sociale, per escluderli, si usa la pena. La cui funzione è proprio questa: la pena è una macchina formidabile di riproduzione enfatizzata di esclusione.
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