Modello Kurdistan: se volete la pace, ora «non lasciateci soli» Il Manifesto
Ecologia, parità di genere, internazionalismo. L’annuncio dell’invasione turca del nord-est siriano “chiude” a Roma la prima conferenza su Confederalismo democratico e municipalismo. Occhi puntati su un «esperimento di democrazia radicale e diretta, che va oltre lo stato nazione». Il Congresso nazionale del Kurdistan (KnK): «Così permetteranno all’Isis di riorganizzarsi per commettere crimini contro l’umanità, costringendo milioni di persone a fuggire».
«L’invasione della regione da parte delle forze turche creerà circostanze che permetteranno all’Isis di riorganizzarsi e commettere crimini contro l’umanità, diventando di nuovo una minaccia per il Medio Oriente, l’Europa e il mondo, causando morte e costringendo milioni di persone a fuggire»: è secco il commento del KnK – Congresso nazionale del Kurdistan – alle minacce di invasione turca. «Da questa regione non c’è stato un singolo attacco contro la Turchia. La Federazione Siria del Nord e dell’Est non ha mai rappresentato una minaccia per Ankara. Chiediamo alle Nazioni unite, all’Unione europea, ai membri della Coalizione globale e al Congresso degli Stati uniti di sconfiggere l’Isis e di prendere una posizione chiara contro le aspirazioni della Turchia di invadere e occupare il Nord– Est della Siria».
«Erdogan vuole attaccare il nostro processo di costruzione di democrazia – ha fatto eco la portavoce delle Ypj – Chiediamo a chiunque voglia un mondo di pace di non lasciarci soli».
La minaccia lanciata da Erdogan arriva a poche ore dalla chiusura della prima conferenza internazionale su Confederalismo democratico, municipalismo e democrazia globale, che venerdì 4 ha visto un primo momento istituzionale alla Camera dei deputati, per entrare nel vivo sabato e domenica al Teatro Palladium, nel quartiere romano di Garbatella. Una due giorni in cui più di 500 persone hanno animato i sette tavoli di discussione, sviluppati intorno a vari punti chiave: rispetto per l’ambiente, parità di genere, internazionalismo, in una generale critica al capitalismo e all’impatto che ha sui territori e sugli esseri umani che li vivono.
Punto di avvio dei dibattiti è stata l’esperienza del popolo curdo, che – nel corso di un conflitto armato – sta sperimentando con efficacia la creazione di una società basata sul pluralismo, l’uguaglianza tra i generi, una produzione ecosostenibile. In una parola, l’esperienza del Confederalismo democratico. Ma la tre giorni non aveva un obiettivo meramente descrittivo: la proposta di UIKI e della Rete Kurdistan Italia era discutere questo «esperimento di democrazia radicale e diretta, che va oltre lo stato nazione», per fornire una nuova prospettiva non solo per il Medio Oriente, ma per tutto il mondo.
L’approccio internazionalista dell’evento è stato confermato dagli interventi: molti, da ogni lato del mondo e portatori di esperienze innovative, spesso silenziate sul piano politico e mediatico. È il caso, ad esempio, del Congresso nazionale indigeno messicano, rappresentato dalla figura di Maribel Cervantes Cruz, indigena di etnia popoluca, o del movimento brasiliano dei Sem Terra, realtà che include più di 350mila famiglie e che da più di trent’anni si batte per una riforma agraria volta a una produzione consapevole. È da queste pratiche che arriva un messaggio all’intero pianeta: per superare il capitalismo, è necessario costruire spazi comunitari, lottare contro il patriarcato, praticare l’auto-organizzazione.
Da questo punto di vista, l’esperienza curda è stata indicata durante la conferenza, oltre che come modello globale, come l’unica possibilità di stabilizzare un’area martoriata da un conflitto pluriennale. «Il popolo curdo ha sconfitto Isis, una minaccia globale. Eppure siamo assenti da ogni tavolo istituzionale. Nessuna soluzione democratica in Medio Oriente sarà possibile finchè il nostro popolo non verrà riconosciuto», ha affermato Anwar Muslem, copresidente della regione Eufrate, nord-est della Siria.
In questa liberazione le donne hanno avuto un ruolo centrale. «Siamo da sempre le maggiori vittime dei conflitti: noi non abbiamo accettato di esserlo. Sapevamo che se volevamo difenderci dovevamo essere noi a farlo: perciò abbiamo preso le armi. Ma non ci siamo limitate a questo: ci siamo organizzate in autonomia per affermare la nostra volontà»: così Dabr Iomma Issa, comandante Ypj –Unità di protezione delle donne – che, insieme ad altre, ha guidato la liberazione di Raqqa da Isis. «Nel 2015, durante lo scontro nella città di Kobane, tutte le donne hanno difeso la città, è questo è stato un segnale importante: tutti hanno capito l’importanza del nostro protagonismo, e questo è un messaggio fondamentale. Perché per una vera rivoluzione, abbiamo bisogno di menti libere». Sulla necessità di ribaltare la visione egemonica patriarcale si è tornato più volte: «Si deve cambiare punto di vista, e per farlo dobbiamo analizzare quanto subito storicamente dalle donne, relegate a una condizione di subalternità in funzione del capitalismo: non a caso si moltiplicano gli attacchi nei confronti di donne in ruoli di potere. Le donne devono assumere consapevolezza, liberarsi da questa visione inferiorizzante e acquisire una reale capacità di azione. È questo il presupposto per un reale cambiamento, non solo delle donne, ma dell’intera società», ha affermato Hanim Engizek, rappresentante del movimento delle donne curde.
Altro punto nodale è stata l’idea di sostenibilità economica e cura dei beni comuni. «Non possiamo pensare di portare avanti un modello di produzione non in linea con i bisogni della gente: e il primo bisogno delle persone è proprio la protezione dell’ambiente, ossia dell’habitat in cui vivono», ha dichiarato Ahmad Yousef, consigliere del Comitato ecologico ed economico del Nord Est della Siria. Gli ha fatto eco Daniel Mancio, del Movimento Sem Terra: «Occorre lavorare per costruire una società giusta per l’ambiente e conseguentemente per le persone. Il modello neoliberista è insostenibile, propone un falso sviluppo, predatorio, che mira all’arricchimento di alcuni gruppi di potere mentre condanna alla distruzione l’ambiente in cui viviamo e all’avvelenamento i nostri corpi».
La conferenza ha permesso di pensare al Confederalismo democratico come modello anche nel quadro europeo e italiano, dove la rinascita dei nazionalismi fomenta razzismo e odio, e dove il capitalismo reagisce alla sua crisi con l’attacco ai diritti. Ciononostante, anche in Europa si sviluppano movimenti municipalisti e spinte per il ribaltamento dello status quo, e arrivano proprio dai gruppi maggiormente sotto attacco, in particolare donne e migranti. Secondo Enrica Rigo, associata di Filosofia del diritto dell’Università RomaTre, «i migranti rivendicano il diritto alla libertà di movimento» palesando le contraddizioni di un’Europa aperta solo alle esigenze di mercato. Ed è proprio la mobilità umana, secondo Rigo, la «sfida democratica al progetto omogenico nazionale», che non raccoglie la possibilità di una convivenza di esistenze diverse: un’idea di mondo che invece già esiste in diverse esperienze. Lo ha ricordato Mimmo Lucano in un intervento telefonico, esprimendo gratitudine al Confederalismo democratico per aver tracciato la possibilità di una società plurale. L’attenzione alle specificità dei territori e nello stesso tempo la tensione verso l’internazionalismo sono state riprese da Giada Bonu di Non una di meno: «Le donne fronteggiano attacchi comuni, ovunque. I movimenti femministi si fanno corpo di una nuova resistenza possibile. Radicate nei propri territori, interpretandone la sensibilità e i bisogni, le donne aprono spazi di democrazia dal basso e auto-organizzazione».
Filo conduttore della conferenza è stato il pensiero di Ocalan, leader del popolo curdo da vent’anni rinchiuso nell’isola-prigione turca di Irali. Significativamente la conferenza si è chiusa con l’invito a intensificare le iniziative per il suo rilascio. «Il Sudafrica ha iniziato a cambiare quando Mandela è stato liberato – ha affermato Kgabele Solomon Mapaila, vicesegretario del Partito comunista sudafricano – La pace in Medio Oriente sarà possibile solo quando tutti i paesi si posizioneranno contro l’imprigionamento di Ocalan».
Parole che all’indomani delle dichiarazioni di Erdogan e del riposizionamento Usa risuonano come un imperativo improrogabile.
«Erdogan vuole attaccare il nostro processo di costruzione di democrazia, e lo fa ancora una volta con la violenza, come mentre sconfiggevamo l’Isis», aqggiunge la portavoce delle Ypj. «Chiediamo alla comunità internazionale di rendersi conto della gravità della situazione. E di appoggiarci nella costruzione di una società in cui tutti possano vivere liberi e uguali».
Serena Chiodo
Il Manifesto
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A quando un corteo dedicato a questo?