“L’Alligatore” di Carlotto. Davvero è sulla Rai?

“Io non guardo Montalbano la sera,
non mi piacciono gli sbirri,
io leggo Carlotto…”

E’ da pochissimo uscita per Rai Fiction (e Fandango) la mini-serie “L’Alligatore”, trasposizione per il piccolo schermo della famosissima saga noir di Massimo Carlotto; superando mille timori e diffidenze iniziali l’abbiamo guardata…
L’impresa dei due registi Daniele Vicari ed Emanuele Scaringi non era per nulla semplice, non solo riuscire a dare corpo e voce a personaggi leggendari come gli “investigatori senza licenza” (il tormentato Marco Buratti/l’Alligatore, il vecchio bandito Beniamino Rossini e l’irriducibile militante d’inchiesta Max la memoria) ma anche provare a tratteggiare un Veneto torbido tra acqua e terra, schei e corruzione, nebbia e pistole.
Diciamolo subito: “L’Alligatore” della Rai, incredibile, si lascia decisamente vedere.
La serie compatta in quattro storie da due ore (otto episodi) tre dei romanzi “veneti” più noti della saga (“La verità dell’Alligatore”, “Il corriere colombiano” e il “Maestro di nodi”) più un mix di vari pezzi del mondo noir di Carlotto (da “Arrivederci amore ciao”, a “Nordest”, a “La terra della mia anima”), strutturando il tutto con un ritmo morbido e cadenzato, tra pezzi blues e immancabili sbronze (di Calvados), canali e sparatorie, su e giù tra Padova e la bassa, fino alla laguna…
Il risultato è piacevole e gli ingredienti tipici del cocktail ci sono, merito forse della supervisione dello stesso Carlotto (che compare anche in un piccolissimo cameo nei panni di un portiere d’albergo) e del coraggio della produzione, che diciamolo pure ha scelto di rappresentare per Mamma Rai in prima serata, la serie di noir più socialmente e politicamente critica che si potesse trovare in Italia.
Di questo dobbiamo dare atto agli sceneggiatori: il Veneto dove si muovono le indagini dei tre cuori fuorilegge dei protagonisti è ritratto efficacemente come quell’intreccio puzzolente di professionisti senza scrupoli, questori corrotti, appalti truccati, scandali ambientali, mafie italiane e straniere che trafficano in droga e prostituzione: un luogo dove la legge e lo Stato stanno quasi sempre dalla parte sbagliata.
Azzeccati i ruoli comprimari specie quelli femminili, (in primis l’amore del bandito, la conturbante “Sylvie”) anche se la presenza imposta di “Greta” (Valeria Solarino) e del cattivissimo e onnipresente “Pellegrini” (ispirato a un altro personaggio di Carlotto) alle volte è forzata e non aggiunge nulla alla storia.
Molto belle le ambientazioni (dalle piazze della città del Santo ai colli berici fino giù nella bassa nel profondo veneto tra canali, argini e casolari), forse finanche troppo alla New Orleans di provincia la “base” dell’Alligatore “la cuccia”, ma gli autori sono stati attenti a non far mancare tutti gli imprescindibili oggetti di scena: dai vestiti di Rossini alle montagne di faldoni impolverati, dai dischi blues alla scassata Skoda del protagonista, ai braccialetti del bandito, manca solo, purtroppo, la cucina e la pancia di Max la memoria…
Rischiosa ma comunque ben recitata l’interpretazione di Matteo Martari (che fa l’Alligatore), il cui personaggio nella serie viene fatto incredibilmente ringiovanire di diversi decenni e reso un cowboy blues attraente e fascinoso: l’elemento forse più discutibile di questa trasposizione per la tv.
Troppo depoliticizzato e senza sapore il (magro) Max la memoria di Gianluca Gobbi (ridotto a un blogger imbranato che vorrebbe quasi lavorare a Report), decisamente calzante invece il milanesissimo bandito Beniamino Rossini messo in scena dal bravissimo Thomas Trabacchi, letale, elegante, ironico, a suo agio come un vecchio ballerino nelle sparatorie, come ai tavoli di qualche night club, preciso mentre si liscia i baffi allo specchio come quando estrae con tempismo le sue pistole dorate.
E diciamolo chiaro se fai una serie sull’Alligatore e sbagli Rossini puoi solo pregare di non sparire e diventare l’ennesimo braccialetto dorato al polso del bandito.

Prima di schiacciare il tasto play avevamo paura che ci saremmo trovati davanti a un prodotto buonista, edulcorato, che potesse sussumere e depotenziare la criticità di qualcosa che portiamo nel cuore e che ci ha cresciuto come le pagine di Massimo Carlotto, un intellettuale, attento, impegnato, indipendente e politicamente coraggioso: non siamo rimasti delusi.
E anche se continueremo sempre a preferire la complessità e la potenza di quei piccoli, letti e riletti, romanzi con le copertine color pastello, ci ha fatto sorridere vedere, sulla cattolicissima e pulita Rai, un bandito vecchia scuola e due ex-militanti degli anni Settanta dalle molte ferite non smettere di dire contenti di brindare per aver fregato e punito la Madama.

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