Patria – Un libro che non parla di storia, ma di storie. E di persone

Questo è un libro che non parla di storia, ma di storie. E di persone. O meglio, racconta la storia attraverso le vite delle persone, attraverso i loro occhi.

Un paesino basco senza nome. Nessun riferimento temporale diretto, anche se l’indicazione che ci viene data, e cioè che il presente dei protagonisti coincide con la dichiarazione dell’ETA (Euskadi Ta Askatasuna, letteralmente Paese basco e libertà) della fine della lotta armata, vent’anni dopo i fatti narrati, ci fa supporre che la storia inizi a metà degli anni Ottanta.

Due famiglie che, per quanto di estrazione sociale diversa, condividono un’amicizia profonda le cui fautrici principali sono le due donne di casa, madri, mogli, brave cittadine basche e cattoliche ferventi – per lo meno in gioventù, quando avevano accarezzato insieme la possibilità di entrare in convento prima di innamorarsi dei loro rispettivi mariti. Donne forti, ruvide, di campagna, per le quali la dignità sembra rappresentare il valore supremo, ma che in vero non vivono che per i loro affetti. Sono loro, Miren e Bittori, e il loro rapporto d’amicizia a fare da filo conduttore del racconto.

La prima che si confronta con il figlio prediletto che progressivamente si avvicina ed entra a far parte della lotta armata, venendo infine arrestato e condannato per diversi omicidi e attentati, figlio che sosterrà fino all’ultimo arrivando a livelli di fanatismo indifendibili (lei che, come ricorda a un certo punto la figlia, ha persino versato qualche lacrima alla morte di Franco). Il figlio minore, mai davvero compreso, amante dei libri e della letteratura basca, poco incline alla socialità così come all’attività politica. E la figlia, ostile e critica, la quale, dopo aver sposato uno spagnolo attentando alla “baschità” della famiglia ed essere andata a vivere in città, un destino crudele riporta al paese, a strettissimo contatto con la madre. Sarà proprio lei, nonostante la sua triste sorte, a favorire la chiusura del cerchio della narrazione.

La seconda affronta invece l’esecuzione del marito, sopraggiunta al culmine di una campagna di intimidazione e screditamento a livello sociale avviata dai vertici locali dell’ETA, che ha portato al totale isolamento dell’intera famiglia, dopo che l’uomo aveva smesso di pagare il tributo richiesto dagli etarras agli imprenditori baschi per finanziare l’organizzazione. Una morte giunta, forse, proprio per mano del figlio della sua migliore amica.
E con i suoi due figli, Bittori entra così a far parte della schiera dei parenti delle vittime, un ruolo difficile da sopportare e che ciascuno affronterà in maniera differente.

Attraverso i pensieri e l’intimità dei vari membri delle due famiglie, si racconta un’epoca storica di lotta, rivendicazione, repressione e violenza.
Ma quello su cui maggiormente si insiste, forse perché Aramburu (basco, classe 1959) questi eventi li ha vissuti, ventenne, in prima persona, è il fatto che senza dubbio la repressione e le torture nelle carceri di Stato motivano e rendono assolutamente giustificabile e comprensibile la ribellione, mentre più difficile può risultare per alcuni giudicare la lotta per Euskal Herria.
Ciò che qui viene svelato sono le strategie e insieme le contraddizioni della lotta nazionalista basca, prima tra tutte la feroce propaganda. Una propaganda legata innanzitutto all’estetica del militante, ma anche all’imposizione di un codice “etico” di comportamento sociale.
Le foto dei combattenti arrestati, esposte in piazza e nel bar dove i ragazzi si ritrovano a bere e a passare il tempo per invocarne la liberazione, mostrano sempre giovani e aitanti eroi, anche se negli anni, come ci racconta l’autore, dopo aver trascorso una gioventù di clandestinità e prigionia, i loro capelli sono caduti e i chili aumentati. La minaccia dell’esclusione sociale per chiunque non appoggi, per lo meno pubblicamente, l’ETA e le sue azioni. Una propaganda che ha del liturgico, tant’è vero che una parte consistente del clero basco pare abbia svolto al tempo un ruolo centrale nell’opera d’indottrinamento politico.

Centrale è anche l’opposizione città/campagna. Mentre in città come San Sebastián, dove alcuni dei personaggi si troveranno a vivere una parte della loro vita per necessità o per scelta, c’è una maggiore varietà di possibilità, modelli di vita e di pensiero, così come una maggiore opportunità di sfuggire al controllo sociale, nel paese non c’è via di scampo, specialmente per i più giovani.

Il romanzo ci parla di legami, familiari e amicali, ma prima di tutto con la terra. E ci porta così a riflettere su cosa sia la patria. Un valore? Un’identità culturale? Ma anche una condanna che impedisce la propria autodeterminazione e di vivere liberamente le proprie relazioni interpersonali e affettive. La risposta che sembra voler suggerire l’autore è che quello di “patria” non è un concetto univoco, ma cambia da luogo a luogo, da momento storico a momento storico, da persona a persona. Un concetto che ha insieme l’accezione positiva della terra natia, dove affondano le radici culturali di ciascuno, ma che diviene una prigione quando viene idealizzata e sacralizzata, imposta come un marchio.
Insomma, la patria può unire un popolo e contemporaneamente separare le persone.

Dal romanzo non emerge un giudizio definitivo dell’autore sui rispettivi personaggi, fatta eccezione per alcuni nei confronti dei quali la critica emerge a mio avviso in maniera piuttosto chiara: si tratta dei rappresentanti delle istituzioni, siano esse ecclesiastiche, partitiche, di Stato, o di polizia. Queste istituzioni, si rivelano sempre dannose e repressive, nella migliore delle ipotesi inutili.
Ciascuno, a seconda della propria sensibilità e delle proprie idee, può invece sentirsi affine o prendere posizione nei confronti dell’uno o dell’altro protagonista, dal momento che l’agire di ognuno è sempre, prima di tutto, umano.

In conclusione, il valore aggiunto di Patria è quello di non limitarsi a raccontare una storia; quella che Aramburu propone è una possibile analisi dei movimenti nazionalisti (ma perché non identitari, etnici, religiosi…), che rivendicano a vario titolo una Patria che spesso diviene più che altro il pretesto per lotte di potere tra fazioni, tra partiti, tra organi di potere, mentre le vittime, da entrambe le parti, rimangono tali.

(Fernando Aramburu, Patria, Guanda 2016)

S_M

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