“Triangle of sadness”: la lotta di classe non è una cena di lusso?
Vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes 2022 Triangle of sadness, il film di Ruben Östlund, ha suscitato reazioni contrastanti. C’è chi lo ha amato e chi lo ha rigettato ritenendolo eccessivo e splatter. In coda per vederlo in un cinema milanese, qualche settimana fa ci è capitato di ascoltare il commento entusiasta di una spettatrice che era addirittura tornata una seconda volta per vederlo nuovamente.
Da parte nostra, non proponiamo una recensione completa, ma piuttosto proveremo a porre una serie di interrogativi che ci sono sorti e che hanno in qualche modo a che fare con i temi che più ci stanno a cuore.
La storia, in sé, è piuttosto semplice: il nucleo centrale del film racconta di una crociera di lusso a cui partecipano personaggi che rappresentano il parterre della riccanza del mondo attuale, che si incontrano/scontrano con l’equipaggio espressione della classe lavoratrice (dalle donne delle pulizie, passando per le e gli assistenti di cabina, fino al capitano); a un certo punto, per un imprevisto, la nave affonda e i pochi sopravvissuti approdano su un’isola apparentemente disabitata. I naufraghi vedranno messa a dura prova la loro capacità di sopravvivenza.
Sulla nave, dicevamo, ci sono i ricchi passeggeri, i poveri che svolgono tutta la bassa manovalanza e, nel mezzo, c’è l’equipaggio che tiene in piedi tutti i riti (anche i più inutili e bizzarri) e le sovrastrutture di potere tipiche della nostra società. Potrebbe l’equipaggio rappresentare l’attuale classe media in eterna e sempre più drammatica crisi d’identità? Il naufragio ovviamente ribalta i ruoli, e chi è abituato a rimboccarsi le mani prende, quasi naturalmente, il potere. Si modellano immediatamente nuovi rapporti forza e si creano, quasi naturalmente, anche nuove relazioni di servilismo e subalternità.
Il vero filo conduttore della narrazione sono le vicissitudini di una giovane coppia: Carl e Yaya, lui modello sulla via del tramonto, lei modella di grande successo nonché influencer di grido. Il rapporto iniziale tra lui e lei è interessante, con lui condannato a essere la parte debole della coppia. La relazione si sarebbe potuta approfondire, anche se di fatto i due personaggi acquistano un po’ di spessore psicologico solo dopo il naufragio.
Episodio centrale e in qualche modo spartiacque della narrazione è la sontuosa “cena con il Capitano”, organizzata per volere di quest’ultimo in una serata di mare (molto) mosso. Il tutto con le conseguenze catastrofiche che abbiamo appena esposto. Molti hanno duramente criticato come eccessiva questa parte del film. Ma se si trattasse di una metafora (neanche troppo implicita) del mondo di oggi che incurante va verso il precipizio nonostante i mille campanelli d’allarme? La cena di alto livello non potrebbe essere un parallelo dell’accumulo continuo di ricchezze da parte dei ricchi senza voler mollare neanche una briciola, a scapito della loro stessa salvezza? Una metafora insomma di chi è colpevole in prima linea del disastro ambientale e sociale attuale (armatori, petrolieri, mercanti d’armi…) e continua imperterrito e incurante a guidarci verso la catastrofe sicuro di poterla fare, ancora una volta, franca?
Interessante, anche se forse troppo forzata, la dialettica che nasce tra il capitano della nave americano marxista e l’oligarca russo (nuovo proprietario della barca) turbocapitalista, con la sfida a suon di citazioni dei grandi classici del pensiero politico e filosofico. Il film ha la capacità di far spesso ridere con un certo mestiere, ma a volte estremizza talmente tanto da rischiare di far perder il filo della narrazione.
Per concludere, ci sembra di poter dire con discreta sicurezza che la questione di classe sta tornando sugli schermi dei cinema con una certa prepotenza. In modi strani e spesso diversissimi tra loro, ma con una “musica di fondo” comune.
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