Tutte pazze per l’avvocata Woo
Una serie tv a tema avvocatura. No, pietà, non se ne può più. La home di Netflix è letteralmente e da anni inondata di serie di questo tipo, quasi tutte americane. Per lo più il leitmotiv è sempre lo stesso: avvocati (o avvocate, ancora meglio, da Ally McBeal a The Good Wife) ricchi che dai loro uffici vetrati vista Manhattan si confrontano con la dura vita della giovane leva che brama di diventare socia dello studio/ la competizione feroce tra colleghi/ le pene d’amore più varie che hanno come sfondo aule di tribunale, casi di omicidio, feste di gala dell’élite sociale.
E poi ci imbattiamo in Avvocata Woo. Con questa serie ci immergiamo con entrambi i piedi nella reality fiction sudcoreana, un’immersione che per appassionate e appassionati (a proposito di quotidianità locale, ricordiamo il grande successo del film Parasite diretto da Bong Joon-ho) o per chi si diverte a dare uno sguardo a culture sconosciute attraverso le serie tv si rivelerà piuttosto interessante.
Woo Young-woo è una giovane avvocata meno che trentenne laureata con il massimo dei voti alla migliore università di Seul, eppure non riesce a trovare lavoro. Questo perché non è un’avvocata come le altre: Young-woo è la prima avvocata autistica di Corea. La sua incredibile dote mnemonica, che le ha permesso di imparare a memoria i Codici legislativi coreani sembrerebbe non essere abbastanza: Young-woo, infatti, ha gravi problemi di socializzazione e, di conseguenza, fa molta fatica a costruire legami empatici con le persone.
Poi, un giorno, finalmente è assunta inaspettatamente da uno dei due maggiori studi di Seul, Hanaba, su endorsement diretto della CEO e contro il parere dell’avvocato senior che supervisiona il team dei novellini, due ex compagni dell’università di Young-woo. Come è potuto succedere? Non sveliamo nulla, se non che un ruolo centrale è giocato dal padre di Young-woo, anche lui a suo tempo studente di Legge che ha abbandonato la carriera per crescere da solo, con tutte le difficoltà del caso, questa figlia bizzarra ossessionata dai cetacei, che si nutre solo ed esclusivamente di gimbap (una specialità coreana molto simile al sushi di alghe), non sopporta alcun contatto fisico fin dalla più tenera età, indossa sempre delle cuffie per proteggersi dai rumori troppo forti e dai luoghi troppo affollati che le causano attacchi di panico e deve contare fino a tre prima di oltrepassare qualsiasi tipo di soglia. A meno che non si tratti di porte girevoli automatiche…
Nonostante tutte queste stranezze, la nostra avvocata dimostra la sua abilità nel destreggiarsi tra codici, leggi e cavilli, e questo le apre uno spazio sempre maggiore all’interno dello studio, facendole ottenere la protezione del suo tutor e della sua collega ed ex compagna di università. Ma, soprattutto, riuscirà piano piano a evolvere lei stessa, costruendo dei rapporti sempre più empatici con i propri clienti, il che le permetterà, col tempo, di iniziare a percepire una rosa di emozioni relative al mondo che la circonda ma anche alla sua stessa interiorità: una lista ben più ricca di quella che con l’aiuto di suo padre ha appeso vicino all’armadio della sua camera per imparare quale reazione debba mostrare per esprimere “gioia”, “indecisione”, “dolore”, “tristezza”.
Questo percorso, tortuoso ma in continua ascesa, sarebbe tuttavia impossibile o perlomeno molto più difficile senza l’aiuto dei suoi due unici amici e di Jun-ho, impiegato dello studio con anche un ruolo di assistente, autista, factotum per gli avvocati. Questo giovane, infatti, particolarmente corteggiato dalle colleghe perché bello, gentile e sensibile, le farà scoprire la più forte e problematica delle emozioni per una persona autistica: l’amore, quello che se ne frega degli standard e dei giudizi, ma che costringe a una brusca uscita dalla propria comfort zone e fa emergere tutti i limiti personali.
Avvocata Woo è una serie intrisa di buoni sentimenti, di quelli che siamo abituati a prendere in giro e a etichettare come “buonismo” (visto come vanno le cose ultimamente, non sarà forse il caso di rifletterci un po’ su?). Ma è anche una serie che mette in scena il dramma della diversità che si confronta con un mondo, quello sudcoreano, intriso di obblighi sociali, etichette, buoncostume, così come di competizione e lotta per la “redenzione sociale” o il mantenimento del proprio status ereditato, che difficilmente accetta, e forse comprende, la devianza. L’autismo, in particolare, è un disagio particolarmente comune e poco affrontato in Corea. Un’altra serie affronta a nostro avviso piuttosto bene, anche qui con qualche eccesso da soap, questo tema unitamente a quello dell’educazione folle a cui sono sottoposti moltissimi bambini e bambine, fatta di doposcuola serali per “bambini dotati” e infinite sessioni di studio o esame, nella speranza che si dimostrino almeno un po’ geniali e possano così accedere agli studi universitari. Sì, perché il curriculum di studenti e studentesse sudcoreani inizia a essere composto da madri sempre più ansiose e competitive alle scuole elementari (quando non prima, se possibile) e solo una piccola percentuale di questi bambini e bambine potrà completare la propria educazione e accedere a occupazioni che possano elevare lo status familiare. Questa serie è Green Mothers’ Club, sempre disponibile su Netflix.
Tornando a noi, seguendo le lunghe puntate che compongono la serie Avvocata Woo ci si troverà a sorridere, a commuoversi, a riflettere sulla diversità e sullo spazio che le è concesso nella nostra società e che noi stessi/e le riserviamo. Può darsi anche che ciascuna e ciascuno possa ritrovare in sé un piccolo pezzo di Woo Young-woo, che al diritto e al rovescio resta sempre uguale, come “kayak”, “atta”, “radar”, “omonomo”, “esose”.
S_M
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